Pmi: più credito per chi riesce a misurare e comunicare la sostenibilità
Le aziende devono dimostrare il livello di “green” ed evidenziare i contenuti del profilo ESG. Ciò è, e sarà sempre più necessario sia per l’accesso al credito
Cinque trilioni di dollari: secondo gli esperti, entro la fine del 2024 sarà questo il valore dei prodotti – Green Bond o, all’italiana, obbligazioni sostenibili - con i quali le imprese finanzieranno la transizione ecologica. La partita è aperta: il Vecchio Continente ha dominato il settore nel 2023 con volumi a quota 310 miliardi di dollari. Il Regno Unito, che occupa la prima posizione nelle emissioni, è seguito da Germania e Italia.
Nel “gioco” finanziario della sostenibilità ci sarà spazio anche per le piccole e medie imprese? Quale potrà essere la loro fetta di mercato? Come potranno orientarsi? Soprattutto, quali le scelte in un settore dove il confronto con gli istituti di credito risulterà vincente?
Ne abbiamo parlato con Rossella Locatelli, che all’Università dell’Insubria di Varese e Como insegna Economia Bancaria. E dice: «Per le imprese, soprattutto per quelle di piccole e medie dimensioni, il problema non è tanto lo strumento di finanziamento prescelto ma dimostrare di essere “green” e, comunque, di essere in grado di dimostrare il loro posizionamento con riferimento ai fattori ESG. In quello che già fanno, tante Pmi sono sostenibili e dimostrano una particolare attenzione all’ambiente, al sociale e alla governance, ma il problema è fare emergere queste performance, misurarle e comunicarle».
I "green bond" sono adatti anche per le Pmi?
Penso sia difficile poter trasferire questo strumento alle Pmi, perché i “Green Bond” sono più facilmente emessi da grandi imprese che di norma accedono ai mercati finanziari, oppure da fondi di investimento green oriented. Le Pmi non quotate e di medio-piccole dimensioni non hanno la forza, e a volte anche la possibilità, di rivolgersi al mercato. Nemmeno a quello dei green bond. Infine, il mercato dei “Green Bond” è partito prima ancora di poter essere regolamentato. Oggi, invece, c’è una regolamentazione molto severa che introduce diverse tipologie di Green Bond sulla base della qualificazione delle politiche di investimento dei fondi rivenienti dall’emissione di questi titoli. In ogni caso, consiglio a chi desidera sottoscrivere strumenti green di leggere attentamente il regolamento dell’emissione per capire di che strumenti si tratta, e se gli investimenti finanziati da essi corrispondono alle proprie intenzioni di investimento sostenibile. Purtroppo, ancora oggi il concetto di sostenibilità è indeterminato: spesso lo si usa, o si abusa, ai fini del marketing ed è quasi diventato una moda. Invece serve rigore: è questo che la normativa finanziaria, complessa e ancora in corso di completamento, si propone di assicurare e tutelare.
Quindi, non si tratta tanto di sfruttare gli strumenti finanziari alternativi quanto di raccontare quello che si fa o si vorrà fare nell’ambito degli ESG?
Per una piccola e media impresa la priorità è e resta l’accesso al credito. Poi, senza dubbio, ci sono operatori, strumenti innovativi e novità normative che si propongono di aiutare le imprese a rivolgersi al mercato finanziario. Il Decreto Capitali, per esempio, ha dato il via alla dematerializzazione delle quote delle Srl, mentre il mondo Fintech è ricco di prodotti, ma non del tutto regolamentato. Sotto il profilo ESG, come dicevo, il problema non è lo strumento finanziario perché le aziende possono anche mantenere una struttura del debito tradizionale, ovvero incentrata sui finanziamenti bancari. Ciò che devono fare è dimostrare il loro livello di “green” ed evidenziare i contenuti del loro profilo ESG. Ciò è, e sarà sempre più necessario sia per l’accesso al credito bancario – ovvero per poter beneficiare di linee di finanziamento specifiche e/o di condizioni di costo favorevoli - sia perché aumenterà la richiesta di evidenziazione del proprio profilo ESG anche nell’ambito della catena di fornitura. Questo perché le imprese più grandi sono obbligate dalla normativa non solo a redigere un rapporto di sostenibilità che contiene indicatori di dettaglio su alcuni aspetti green (ad esempio le emissioni di CO2), ma anche perché la prossima entrata in vigore della Direttiva CSDDD (Corporate Sustainability Due Diligence Directive) obbligherà le imprese più grandi a compiere un’analisi accurata del livello di sostenibilità di tutti i soggetti nell’ambito della propria catena di fornitura.
Le imprese si devono preoccupare?
Diciamo che si devono attrezzare. Per le società quotate che superano una determinata soglia dimensionale, la direttiva CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive) entrerà in vigore dal 1° gennaio 2025 costringendole a raccogliere dati anche dalle aziende fornitrici oltre che a quelle parte del gruppo. La Direttiva CSDDD estende gli obblighi di responsabilità e trasparenza ESG a tutte le aziende appartenenti ad una filiera produttiva. Entrerà in vigore progressivamente, ma costringerà le imprese più grandi a fare analisi di dettaglio sul livello di osservanza dei fattori ESG nella loro catena di fornitura. In questa, lo sappiamo, ci sono anche le piccolissime, piccole e medie imprese alle quali le grandi imprese stanno già chiedendo di calcolare alcuni indicatori e di comunicare le loro azioni. Ma a richiedere sempre più spesso informazioni utili per qualificare il profilo ESG sono anche le banche, che sono obbligate dalla regolamentazione a inserire la valutazione del profilo ESG accanto a quella del profilo finanziario nel proprio processo di concessione e monitoraggio del credito. Da qui la proliferazione di tanti questionari, spesso diversi fra loro, che le banche chiedono di compilare anche alle Pmi. Anche su questo è in corso una riflessione su come ottimizzare la raccolta delle informazioni dalle imprese.
La Bce ha rinviato il secondo taglio ai tassi, però sembra si stia uscendo dal periodo più nero della lotta contro l’inflazione: è così?
È vero, il periodo più duro dell’uso degli strumenti straordinari e non convenzionali della politica monetaria sembra sita finendo. O, almeno, si intravede la luce in fondo al tunnel. Però, bisogna sempre tenere presente
quel fattore che, negli ultimi anni, è diventato normalità: la grande incertezza legata alle dinamiche internazionali (i conflitti in corso insegnano). Di conseguenza, anche nel ragionare sulle scelte di politica monetaria, che si muove su scenari che comprendono anche quelli geopolitici, ci vuole cautela. Il vero punto è come muoversi e a quale velocità: da un lato non si può penalizzare l’economia, dall’altro ci sono eventi imprevedibili che possono cambiare le cose.
In tutto questo la sostenibilità rappresenta un punto di non ritorno: le banche sono ben disposte a concedere prestiti alle imprese che si dimostrano sostenibili?
Bisogna tenere conto della domanda di mercato, che mostra sempre più attenzione alle tematiche ESG, e della regolamentazione che, come ho detto, spinge molto sulla sostenibilità. Gli obiettivi di sostenibilità, in generale, e la cosiddetta transizione green generano opportunità per le imprese, per le banche ma portano anche alcuni rischi che vanno governati.
Cosa stanno facendo le banche?
Tanto, ma non (solo) per scelta strategica. Gli istituti di credito si stanno muovendo nella direzione della sostenibilità perché, da un lato, ci sono quelle opportunità di mercato di cui si diceva prima e, dall’altro, perché sono spinte dalla normativa. La Bce (che ha il compito di vigilare) e l’Eba (che ha il compito di scrivere le regole), negli ultimi anni hanno intensificato progressivamente l’attenzione sulle tematiche ESG, in particolare sui rischi climatici. Secondo la normativa generale, che è molto articolata e sotto alcuni aspetti ancora disorganica e incompleta, le banche devono fare almeno due cose. Prima: la disclosure, cioè hanno l’obbligo di comunicare al mercato quanto di ESG/green c’è nei loro bilanci. La seconda è tenere conto dei rischi ESG e climatici nella propria gestione.
Ce lo spiega?
Il legislatore dice alla banca: quando si fa la valutazione del merito di credito di un soggetto, non si deve solo guardare alla liquidità che produce o alla sua capacità di ripagare il debito (caratteristiche strettamente finanziarie), ma anche al suo profilo ESG. Secondo: le banche devono affrontare nuovi rischi legati agli ESG (per esempio, il finanziamento concesso ad un’impresa che non lavora a favore del rispetto dell’ambiente, ovvero che opera in un settore “brown”) che possono avere tra l’altro ricadute sulla loro reputazione. Da qui, l’importanza di tenere sotto osservazione i due nuovi profili di rischio delle imprese.
Quali?
Quello fisico e quello di transizione. Il primo è legato alla possibilità che la solvibilità di un’impresa potrebbe essere compromessa dalla concretizzazione di un rischio ambientale. Ad esempio, se un fiume esonda e distrugge le merci in magazzino di un’impresa che ha la sua sede a due passi da quel corso d’acqua, quell’impresa, probabilmente, farà molta fatica a ripagare il debito. Stesso discorso per un’azienda che dà in garanzia un immobile che si trova in una situazione di rischio fisico: la garanzia rischia di perdere valore perché è soggetta al fatto che si verifichi quell’evento. Il secondo, piuttosto complesso, si può descrivere con il fatto che le banche devono accompagnare le imprese nel raggiungere, entro il 2050, gli obiettivi di neutralità climatica definiti dall’accordo sul clima di Parigi. Il rischio, per gli istituti di credito, è che non riescano in questo accompagnamento. Il compito delle banche è quello di trovare un modo per misurare questi rischi e comunicarli. Alcune si sono già mosse, altre lo stanno facendo. Il punto fondamentale è che dovranno graduare le loro offerte di credito, tutto il loro portafoglio, sulla base di questi nuovi profili di rischio. Trovare indicatori significativi per misurare il profilo degli imprenditori secondo i fattori ESG è, oggi, uno dei principali problemi: la normativa c’è, ma il percorso è lungo.
Quali consigli può dare ad un piccolo imprenditore per orientarsi sul mercato finanziario?
Primo: entrare nella logica di dover misurare e comunicare il proprio profilo ESG, perché questo facilita l’accesso al credito con un miglior costo e l’accesso a linee di finanziamento specifiche per rendere l’impresa green. Secondo: farsi trovare preparati sulle richieste legate alla sostenibilità. Terzo: affidarsi ad un consulente finanziario, o sviluppare internamente competenze adeguate, per la gestione finanziaria. Una adeguata cultura finanziaria nelle imprese serve per evitare brutte sorprese, per scorgere le giuste opportunità di reperimento di risorse finanziarie e, quindi, compiere scelte ottimali per l’impresa stessa. Insomma, bisogna possedere le giuste chiavi di lettura anche per capire la qualità dell’offerta della propria controparte finanziaria.
La finanza sarà tutta green?
Non diventerà tutta “verde”, e forse è questo il problema. L’Europa investe sul green, ma alcune potenze mondiali lo fanno in modo molto timido. Se un giorno una banca italiana, tedesca o francese deciderà più di non finanziare più quei soggetti considerati “brown” (dalla scarsa sensibilità nei confronti degli ESG), nei mercati finanziari internazionali ci saranno sicuramente altri soggetti che lo faranno. Le tematiche green si devono risolvere a livello mondiale, questa è la scommessa: investire nel green non significa guadagnare meno. Ma perché questo accada è necessario lavorare sulla consapevolezza di dover cambiare quello che si deve cambiare. I giovani imprenditori, per esempio, hanno una grande sensibilità sulle tematiche ESG e, magari, sono anche disposti a guadagnare meno ma a fare scelte sostenibili. Però, l’equilibrio finanziario deve essere preservato e devono essere ripensate le catene di fornitura. Insomma, si chiede una vera e propria discontinuità nella forma mentale di tutti noi. Davide Ielmini