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Pmi e cambio generazionale, sopravvive chi non si chiude nel passato

Pmi e cambio generazionale, sopravvive chi non si chiude nel passato
Continuità generazionale

Il Covid ha dato una sensibile accelerazione nel ricambio al vertice delle imprese familiari italiane. Se infatti nel decennio 2013-2022, in media, il 4,7% delle aziende familiari ha avuto un avvicendamento in ciascun anno, sono state ben il 6,9% considerando solo l’ultimo triennio.

È quanto emerge dalla XV edizione dell’Osservatorio AUB, promosso da Aidaf (Associazione Italiana delle Aziende Familiari), cattedra AIDAF-EY di Strategia delle Aziende Familiari (Università Bocconi), UniCredit, con il supporto di Borsa Italiana, Fondazione Angelini e Camera di Commercio di Milano Monza Brianza Lodi, con l’obiettivo di monitora tutte le aziende familiari Italiane che hanno superato la soglia di fatturato di 20 milioni di euro (il 65% del totale).

Emerge che le successioni al vertice avvenute hanno avuto un impatto positivo sui tassi di crescita delle aziende familiari e tale impatto è maggiore quando il leader uscente è un ultra-settantenne e il successore ha meno di 50 anni, il Consiglio di amministrazione pre-successione era già aperto verso i non familiari, il leader entrante è una donna e se il passaggio è avvenuto tra familiari (uscente familiare e entrante familiare).

Ma il passaggio generazionale è un processo che deve essere pianificato con cura, perché complesso e rischioso per l’imprenditore e per l’azienda stessa. Famiglia, proprietà e impresa presentano area di sovrapposizione che spesso innescano conflitti e tensioni. Per questo occorre prepararlo per tempo con piani strategici basati su razionalità economica più che su sentimenti familiari. Ne abbiamo parlato con Andrea Colli, professor of Economic and Business History, Global History and Geopolitics dell’Università Bocconi.

GUIDARE ANCHE IN MANIERA "DISRUPTIVE"

Continuità generazionale

Professor Colli come funziona il passaggio generazionale delle Pmi rispetto alle grandi aziende del capitalismo italiano, le dinamiche e le difficoltà sono le medesime oppure cambia qualcosa?  «Secondo me le dinamiche non differiscono molto in relazione alla variabile dimensione», replica Colli, «le difficoltà e le problematiche sono più o meno le stesse. C'è una differenza, però, che caratterizza soprattutto le imprese che hanno una maggiore apertura ai mercati internazionali: fanno intravedere dei comportamenti un po’ più virtuosi delle altre che, spesso, affrontano i passaggi generazionali semplicemente limitandosi a replicare la formula imprenditoriale delle generazioni passate».

«Le imprese che sono attive all'estero, che magari hanno già fatto un passaggio generazionale che hanno in qualche modo guidato il processo di internazionalizzazione», spiega il docente, «hanno imparato a fare passaggi generazionali molto più qualificati, dove non tutti gli eredi entrano a far parte della compagine direzionale dell'azienda e dove spesso si privilegia un management esterno, nonostante la proprietà rimanga in mano alla famiglia».

«Io vedo grosse differenze tra imprese internazionali e non internazionali e vedo le differenze tra le imprese che hanno già sperimentato dei passaggi generazionali in passato e, quindi, in qualche modo hanno accumulato delle competenze, delle conoscenze che consentono di capire che il passaggio generazionale è una cosa delicata e va fatta», prosegue Colli, «non è un processo automatico, è un processo che va guidato anche in maniera, come dire, a volte distruttiva, avendo cioè il coraggio di dire ad alcuni componenti della famiglia: “no, qua non puoi lavorare”, mantenendone altri e aprendosi al management esterno».

I DUE SNODI CHIAVE DEL PASSAGGIO DEL TESTIMONE

Continuità generazionale

Mettiamo il caso che sia il capostipite di una di una piccola media impresa, un'impresa del tessile per esempio. Per fare in modo che questa impresa sopravviva, non solo a livello industriale e produttivo ma anche a livello generazionale, che cosa dovrei fare? Quali sono le strategie che dovrei mettere in campo per tempo?

«Innanzitutto, secondo me, c'è un passaggio psicologico - e sottolineo psicologico – molto molto importante», risponde il professor Colli: «È più rilevante che sopravviva l'impresa oppure che ci continui a lavorarci dentro la famiglia? Questo è il primo passaggio importante. Devo per forza trasmettere questa cosa che io ho creato - oppure che ho modernizzato e fatto crescere in linea di sangue - o è più importante che trovi il modo di fare sopravvivere questa realtà. Questo è il primo passaggio ed è un passaggio non automatico. È un passaggio molto complicato che dovrebbe portare l'imprenditore a fare una valutazione molto serena sulle capacità dei propri eredi, dei propri successori».  

Il primo snodo per il passaggio generazionale è quindi riuscire a capire se la successione in linea familiare sia la migliore anche per l’azienda. E qui entra in gioco la capacità di giudizio oggettiva. In pratica, spiega Colli, bisogna capire «ci si trova di fronte un figlio carismatico o non assolutamente carismatico, adeguato o non adeguato. Se ha interessi completamente diversi, si capisce che la cosa non lo affascina. Questo è un fatto oggettivo».

«Poi l'imprenditore dovrebbe fare una serena valutazione su chi gli sta per succedere per farlo crescere, un training che deve essere fatto sia all'interno dell'impresa sia con l'aiuto, magari, di manager che affiancano l'imprenditore stesso», prosegue il docente, «cioè deve curare il processo di crescita della generazione che arriva. Non si deve pensare “ora ti trasmetto l’azienda” – cosa molto comune nelle imprese - senza valutare ciò che si è fatto. Non è così, anzi, spesso, nella mia esperienza, le aziende familiari che sono riuscite a prosperare sono quelle che hanno accuratamente selezionato gli eredi e li hanno fatti crescere, vanno date loro responsabilità in maniera progressiva».

Inoltre, altro punto importante, «non funziona dire: lascio l'azienda a mio figlio e poi continuo a esserci tutti i giorni. Dire “è mio figlio che decide” ma poi essere sempre lì, confonde i referenti o coloro che lavorano con il figlio o con la figlia. Questo è un altro passaggio psicologico molto importante che viene meno naturale nelle imprese piccole e piccolissime perché evidentemente c'è ancora una identificazione molto stretta con il business».

FARESE IMPRESA NON REPLICANDO IL PASSATO

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Ma se ci poniamo, invece, dal lato di chi la guida dell’impresa la riceve? «Deve avere la capacità di essere in qualche modo distruttivo da un altro punto di vista», replica Colli: «Cioè dire, ho ricevuto un'impresa che mio nonno, mio padre, mia madre hanno costruito in un certo modo ma non è detto che questa debba andare avanti sempre così. Non devo avere l'ossessione del mantenere, di continuare a gestire avendo la stessa strategia, la stessa idea, la stessa intuizione che era quella di mio padre. Le imprese che sono sopravvissute e che si sono anche affermate - anche senza necessariamente crescere più di tanto -, sono quelle dove le generazioni che ricevono l'impresa in qualche modo la reinterpretano, la ricreano, fanno gli imprenditori non riproducono. Bisogna avere il coraggio di essere un po’ iconoclasti nel non prendere una formula che era perfetta per il passato come per definizione: non va sempre replicata, va trasformata».

È il cambiamento nella continuità, quindi, che giova all’impresa. «Ci sono generazioni che hanno ricevuto e a un certo punto hanno saputo dire bene, adesso ci siamo affermati, siamo forti in Italia, stiamo ancora sul mercato italiano? No, proviamo ad andare all'estero a produrre, proviamo ad allargarci, a fare alleanze, proviamo a costruire una cosa differente», spiega Colli, «è questo un po’ il segreto: la generazione che riceve deve trasformare» l’impresa.

NUOVE SFIDE, ANCHE ASCOLTANDO VOCI ESTERNE

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Gli snodi principali, in pratica, sono due. Il primo è capire se gli eredi hanno voglia di fare, di continuare l'impresa, l'altro è quello di attuare un cambio di passo. «I passaggi generazionali devono sempre coincidere con un cambio di passo», evidenzia il Professor Colli, che sia di prodotto o di mercato, «ogni generazione deve avere una sfida nuova da interpretare».

Il concetto è che se si rimane sempre uguali a se stessi, ci si ci si blocca? «Sì, in questo senso sì», afferma Colli, «per una seconda generazione è più comodo avere di fronte il cammino tracciato e per la generazione che lascia è più rassicurante che il successore, l'erede, vada avanti sul cammino tracciato perché è quello che conosco e che ho creato io. Questa cosa è sbagliata. È sbagliato pensare che mio figlio per definizione debba andare avanti a fare quello che ho fatto io».

In sostanza, di fronte al passaggio generazionale, «va fatta una valutazione accurata e va fatta una valutazione anche - cosa che gli imprenditori molto spesso non sono disposti a fare - facendosi aiutare da qualche opinione esterna, perché è chiaro che per l’imprenditore i figli sono tutti uguali e tutti capaci e, tranne qualche buon caso, non è mai in grado di giudicare. È più facile che lo faccia se c'è qualcuno che gli consiglia di farlo. In secondo luogo, ripeto, va tenuta in considerazione anche la posizione di chi l'impresa la riceve, deve essere pronto a raccogliere una sfida che è tutta sua». Giuliano Longo