La forza del marchio: fare branding conviene alle aziende. E vi spieghiamo il perché

La forza del marchio: fare branding conviene alle aziende. E vi spieghiamo il perché
Item branding

B2C, acronimo dell'espressione "business-to-consumer", utilizzata per descrivere il modello di business e gli scambi commerciali che prevedono che un'azienda venda prodotti o servizi direttamente al consumatore finale. B2B, locuzione utilizzata per descrivere le transazioni commerciali elettroniche tra imprese, distinguendole da quelle che intercorrono tra le imprese e altri gruppi. Senza sapere questo, sarebbe inutile continuare a leggere. Ora che invece si è appreso il significato base di questi concetti, bisogna considerare come ormai è fondamentale “fare branding”. Ma cosa vuol dire? Perché tutti questi termini in inglese? Il “branding” consiste nel creare il nome e l'immagine unici di un determinato marchio nella mente dei consumatori, principalmente attraverso campagne pubblicitarie. Il prodotto, in altre parole, non basta più.

L’ultimo item targato Confartigianato Imprese s’intitola proprio così: “Consumi, marchi e branding: regole per il B2B e il B2C”. Ospiti Laura Cantoni, founder ed esperta in marketing research in Astarea e Antonio Belloni, coordinatore del Centro Studi Imprese Territorio. Idea generale, «avvicinare il cliente adeguandosi al mondo del 2022».

UN CAPITALE PER L'AZIENDA

Item branding

«Per “brand” – ha esordito Cantoni –  definiamo quell'insieme di significati, valori, associazioni, aspettative, aspetti funzionali ma anche simbolici (come la rassicurazione data da una marca o la soddisfazione nell’acquisto) che riguardano un'impresa. Una marca può essere identificata con un singolo prodotto, come la Coca-Cola, o con tanti. Le componenti sono sempre due: i contenuti, cioè i valori, gli obiettivi, gli intenti, e il modo di comunicare ossia come raccontare tutto quanto detto sopra ai consumatori».

Se è ben gestito, l’offerta sarà davvero unica, distinguibile e differente dalle altre, così come la reputazione. La marca rappresenta un enorme capitale dell’azienda. Un aspetto intangibile e duraturo nel tempo che va oltre il singolo prodotto. Se quest’ultimo cambia, il valore della marca resta stabile e questo permette di dare identità, valore, competitività all'impresa nel tempo. Affrontiamo un periodo, come ha fatto notare Belloni, soprattutto in Italia in cui il processo di branding è abbastanza in fieri. O, detta all’inglese, work in progress.

«L'intervento sulla marca, attualmente – prosegue l’esperto – avviene per le piccole medie imprese in Italia solo nei momenti di discontinuità obbligatoria, cioè una crisi fortissima o la vendita dell’azienda. Manca una cultura paziente per analizzare la marca in stato di normalità, come il classico cambio di prodotto o l’inserimento di nuove linee. Sono attività non urgenti, ma importanti. C’è chi pensa di avere già il prodotto migliore, mentre c'è vita oltre al prodotto e soprattutto la concorrenza è fortissima. Produrre beni non è più sufficiente: il brand può essere sfruttato davvero in mille modi diversi, oggi». Gli esempi negli ultimi dieci anni di aziende terziste smarcate, che nel tempo hanno sviluppato e costruito la loro marca, non si contano.

CHANEL N.5 E BILLY

Item branding

Ma quindi nel B2C vale più la marca o il branding? L’esempio classico è quello di Chanel: in crisi negli anni 70, l’azienda francese ha deciso di investire reimpostando una campagna di comunicazione su un solo prodotto, il n.5, con scelte sperimentali e aggressive nella fotografia. Il prodotto ha valorizzato il marchio. Ha vinto per rappresentatività. «Penso anche – prosegue Antonio Belloni – al Billy dell’Ikea, la piccola libreria montabile: prodotto scelto in termini di brand per funzionalità, semplicità, buon design e basso costo. Anche il b2b si gioca su questi due canali: che cosa rappresenta il prodotto e a cosa serve. Se si è in grado di comprendere i bisogni attuali, si trova il modo di rispondere anche in maniera immateriale. Lidl è diventato leader dei supermercati low cost con un percorso costruito lentamente».

«I nuovi stakeholder delle marche, cioè tutti quei soggetti portatori di un interesse specifico in un'impresa e dunque interessati al buon andamento dell'impresa stessa – ha aggiunto Laura Cantoni – sono molti di più di un tempo. Le imprese stanno capendo che non sono più solo soggetti economici ma 'di cittadinanza', e quindi devono interagire con diverse realtà. La differenza è la tipologia di cliente. Nel B2C il cliente è un singolo consumatore con la sua famiglia, Il consumatore-cittadino e addirittura ‘consumattore’, cioè partecipa al processo di generazione del prodotto. Nel B2B il referente principale è un'impresa e ci sono relazioni tra imprese con livelli diversi. Un rapporto ‘human to human’, molto più diretto. Un’azienda-consumatrice con dipendenti che ormai partecipano alle decisioni d’impresa. Cambia pure il rapporto coi fornitori: si esige una scelta più accurata che tenga conto dei problemi della filiera, e si offrono maggiori garanzie nella reputazione. Nascono figure di consulenza fiscale come i bilancisti, dato che la UE sta allargando la fascia delle imprese che dovranno fornire i bilanci sociali e di sostenibilità».

Infine l’importanza di trasferire valori nell'ambito delle campagne di branding. Belloni: «È fondamentale anche a livello normativo ed è un obbligo dialogare tenendo conto di tutti i soggetti. Il consumatore valuta l’impresa, il dipendente vuole sapere cosa viene fatto per l’ambiente, gli investitori mettono tutto insieme e hanno diritto di chiedere spiegazioni, prima di decidere».

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