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Immigrati in azienda per far salire occupazione e produttività

Immigrati in azienda per far salire occupazione e produttività
Stranieri in azienda

Immigrazione? Serve, eccome. E serve perché l’Italia è in un momento «in cui agire contemporaneamente sull’aumento del tasso di occupazione dei suoi residenti e su quello della produttività richiederebbe non solo molto tempo, ma anche una trasformazione radicale dell’economia e della società». Lo dice Salvatore Rossi, economista ed ex direttore generale della Banca d’Italia. Che di fronte al fenomeno dell’inverno demografico estende le sue riflessioni su cosa dovrebbe fare il nostro Paese, ma anche come e quando, per affrontare un problema che interessa tanto le imprese quanto i territori. E che rischia di sfuggire di mano.

Professore, lei dice che “l’immigrazione è l’unica possibilità che il nostro Paese abbia per tornare a tassi di crescita economica alti e duraturi”. Al di là dell’inverno demografico, ci sono altre ragioni che stanno spingendo all’assunzione di lavoratori stranieri?
Quello che lei chiama inverno demografico rimane la ragione principale, per cui dal punto di vista strettamente economico ci vorrebbe più immigrazione e non meno. Il problema, ben conosciuto, rimane quello dell’invecchiamento dell’Italia: si fanno meno figli e la popolazione, nonostante i flussi migratori, scende ormai da dieci anni a questa parte. Una popolazione che scende a parità di tasso di occupazione e di produttività porta il Pil a subire una pressione al ribasso. E scende se produttività e tasso di occupazione sono costanti: questa è la ragione principale. Poi ce ne sono altre. Una, importantissima, è l’instabilità finanziaria: per il ridursi della popolazione la previdenza pubblica soffre, e molto. I lavoratori di oggi, che un domani avranno una pensione, se la vedranno pagare da chi lavorerà domani. Ma se il numero di coloro che lavoreranno domani inizia a diminuire, il problema c’è. Bisognerebbe ricorrere al debito pubblico, che però è già pericolosamente alto. Quindi, c’è un germe di instabilità finanziaria che si annida nel problema demografico. E questo, ripeto, può essere risolto soltanto con più immigrazione.

Non ci sono altre soluzioni per aumentare il tasso di occupazione o la produttività italiana?

Stranieri in azienda

Il Prodotto Interno Lordo dipende fondamentalmente da tre variabili: la prima è la numerosità della popolazione. La seconda è quanta parte di questa popolazione lavora, quindi il tasso di occupazione. La terza è quanto prodotto è in grado di fare ciascun lavoratore dati la tecnologia e i mezzi messi a disposizione. La cosiddetta produttività. Della popolazione abbiamo già detto. Per impedire che il Pil scenda, o per farlo crescere come vorremmo tutti (l’economia italiana ha bisogno di tornare a tassi di crescita alti che, ormai, ha dimenticato da almeno 25 anni a questa parte), bisogna agire sulle altre due variabili: aumentare il tasso di occupazione dei residenti e, insieme, aumentare la produttività. Entrambi obiettivi sacrosanti e che, senza dubbio, devono essere perseguiti. Se realizzati, avranno come risultato collaterale quello di far scendere leggermente l’esigenza di lavoratori stranieri. Ottenere questo risultato, però, è difficilissimo: per aumentare l’occupazione in modo stabile nel lungo periodo, e nello stesso tempo aumentare la produttività, bisognerebbe trasformare in modo radicale non solo l’economia ma anche la società. Si può e si deve fare, ma ci vogliono molti anni. La prima delle tre variabili, la numerosità della popolazione, è invece un problema attuale che deve essere affrontato: per questo è urgente realizzare una politica dell’immigrazione.

Tutto questo dovrebbe essere accompagnato da un cambio culturale della società italiana?
Questo è un tema importantissimo perché parte dalla consapevolezza del problema. Se si diffonde nella società italiana, dove predomina la cultura dell’oggi e del “carpe diem”, l’idea che siamo su una china molto pericolosa e che nel medio e lungo termine, non soltanto fra 30 o 40 anni ma fra 5 o 10, potremmo veramente trovarci nei guai, anche chi rappresenta politicamente la cittadinanza prenderà coscienza di questo problema. È questo il cambio culturale che serve al nostro Paese: prendere coscienza di un problema che c’è.

Secondo gli studiosi della demografia, gli stessi immigrati una volta arrivati nel nostro Paese si allineano velocemente alle tendenze sociali italiane: insomma, anche loro fanno meno figli. Per evitare che l’Italia si trovi a un punto di non ritorno lei cosa suggerisce?

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Questo è un fatto: gli immigrati in Italia fanno meno figli di quanti ne facciano gli immigrati in Germania, Francia e altri Paesi europei. E questo perché il nostro Paese è quello che mette più ostacoli alla genitorialità.  Anche degli immigrati. I quali hanno, ovviamente, più figli degli italiani ma ne fanno un po’ meno di quanto potrebbero farne seguendo il loro istinto, la loro cultura e le loro abitudini. Perché non ci sono asili nido ed è ostacolato il lavoro delle madri. Questo è un altro tasto sul quale battere: agevolare il compito di chi deve fare figli, italiani e non. Una priorità di qualunque politica economica. 

Il nostro Paese dovrebbe valutare una diversa idea di integrazione come è stato fatto in Germania? Magari con corsi di formazione mirati sui lavoratori stranieri e servizi di supporto per definire e dettagliare le loro competenze?
Fino a qui abbiamo cercato di capire perché servono più immigrati in Italia. Ora, poniamoci una domanda: quale immigrazione serve? Per le ragioni economiche di cui abbiamo già detto, è ovvio che abbiamo bisogno di immigrati che lavorino alla luce del sole, paghino le tasse e i contributi. Perché l’immigrazione clandestina è una sciagura prima di tutto per chi la vive, ma anche per il territorio che ne subisce le occasionali conseguenze criminali. Ma per avere un’immigrazione regolare serve un’organizzazione formidabile che va studiata con intelligenza. I tedeschi lo hanno fatto assorbendo – nel rapporto percentuale con la loro popolazione - molti più immigrati di quanti ne abbia assorbiti l’Italia. E questo perché hanno montato una macchina organizzativa volta a facilitare l’integrazione e la regolarizzazione degli immigrati. Si sono presi, tra l’altro, un milione di siriani: tutti sono regolari e tutti lavorano. E rappresentano una fetta importante della loro economia. D’accordo, da due o tre anni l’economia tedesca è in crisi, però guardando in prospettiva resta un gigante. Ed uno dei suoi segreti è proprio quello di aver utilizzato, in modo buono, un flusso migratorio costante e intenso.

Con meno nascite e meno lavoratori si incrina la sostenibilità dei sistemi pensionistici, dei servizi sanitari e del welfare. Molti imprenditori sostengono che in Italia manca una “cultura della manifattura” che racconti il mondo delle aziende: c’è il lavoro ma non ci sono i lavoratori. Forse bisognerebbe agire su due fronti: da un lato l’orientamento scolastico e dall’altro il potenziamento delle scuole tecniche, professionali e degli ITS?

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La sua domanda introduce due temi di grande rilevanza e molto più generali: il primo è quello che lei definisce “cultura della manifattura”, mentre il secondo è quello dell’istruzione.
Il primo: l’Italia ha avuto una profonda cultura della manifattura fino ad una ventina di anni fa. Poi, un po’ in tutto il mondo, si è ridotta l’importanza della manifattura nel determinare il Pil: in Italia è scesa ormai al 15% del Pil, o anche meno. In Germania, altro Paese che ha una forte tradizione manifatturiera industriale, un po’ di più. Negli Stati Uniti siamo addirittura al 10%. Però, quel 10 o 15% che sia rimane fondamentale in qualunque economia avanzata, anche molto avanzata e quindi molto terziarizzata. Perché la manifattura è larga parte delle esportazioni di un Paese (i beni manufatti possono essere esportati molto più facilmente rispetto ad un servizio immateriale e intangibile) e poi perché si accompagna ad una mentalità, sia negli imprenditori che nei lavoratori, orientata al mercato e al fare. È molto importante che ci sia questo nucleo manifatturiero in un’economia avanzata.

E la scuola?
La scuola, in un’economia avanzata, è fondamentale. Perché attraverso l’istruzione passa l’innovazione, il grande mantra della modernità. Se non si innova si arretra in qualunque campo: manifatturiero e terziario. Nel privato come nel pubblico. Cent'anni fa era normale che un negoziante vendesse lo stesso prodotto per trenta o quaranta anni di fila senza cambiare il prodotto, il fornitore e il packaging. Oggi, tutto questo non è più possibile perché il consumatore vuole continuamente essere sorpreso da qualche novità: per esempio tecnologica, indotta da una fondamentale invenzione, oppure più banalmente nel packaging. Che, però, non è facile: va pensato e studiato. Per farlo ci vogliono le competenze. Ed eccoci arrivati alla scuola, che deve dare le competenze e le abilità per produrre l’innovazione a qualunque livello e di qualunque tipo. Gli Istituti tecnici, per esempio, sono uno strumento molto utile: in Italia, con molta fatica, si sta cercando di svilupparli. In Germania, invece, hanno sempre dato una grandissima prova. Davide Ielmini

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