La produttività cresce con l’innovazione ma senza formazione si rischia di restare al palo
Le piccole e medie imprese sono state fondate da persone capaci che, come si dice, “si sono fatte da sole”. Però, a questi imprenditori mancano le competenze tecniche per crescere. Che si trovano, invece, in quei giovani capaci di gestire le nuove tecnologie
«La dinamica della produttività fa crescere l’economia. Come? La produttività non è una cosa sola e la si deve scomporre nelle sue diverse componenti: un primo fattore della crescita è l’aumento della popolazione in età di lavoro (che non c’è più in Italia così come in Europa); il secondo è l’aumento degli investimenti e il terzo l’aumento della produttività totale dei fattori (PTF). È quest’ultima che ha spinto la crescita a livelli mai conosciuti prima della rivoluzione industriale. Uno studio della Banca d’Inghilterra ha stimato le componenti della produttività nel Paese dal 1761 al 2011: solo con il contributo di capitale e lavoro, quindi senza la PTF, gli inglesi avrebbero ora gli standard di vita di fine età vittoriana invece che 20 volte più elevati».
Così dice Gloria Bartoli, già docente di Economia all’Università Luiss di Roma e ora segretario generale dell’Osservatorio per la Produttività e il Benessere costituito presso la Fondazione Tor Vergata. Capace di uno sguardo ad ampio raggio su mercati e Paesi, grazie ai vent’anni passati come funzionario senior per il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Ocse e l’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), la professoressa sgombra il campo da qualsiasi dubbio: «Ci sono tre tipi di produttività, ma si parla sempre di quella legata al lavoro: quella che conta per la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ovvero per ottenere un maggior valore degli input utilizzati, è la Produttività totale dei fattori. Che a sua volta dipende dall’innovazione applicata in azienda da imprenditori capaci. Non si tratta solo di brevetti: la crescita della PTF è dovuta alla capacità dell’imprenditore di utilizzare l’innovazione sia per i nuovi prodotti e servizi che per i nuovi processi di produzione. Un po’ come l’elettricità di fine Ottocento, che cambiò tutti i processi produttivi, creò nuovi e infiniti prodotti e provocò la distruzione di tutte le aziende incapaci di adottarla. Oggi, “l’innovazione di scopo generale” è il digitale. Quindi, «la digitalizzazione è per le imprese di oggi ciò che l’elettricità è stata per le imprese di ieri».
Professoressa, senza digitalizzazione le imprese rischiano di restare al buio?
L’Italia non è stata al passo con la rivoluzione digitale, e così si è fermata al 1995. La digitalizzazione, incluse le diverse applicazioni dell’Intelligenza Artificiale, è per le imprese di oggi ciò che l’elettricità è stata per le imprese di ieri: una preziosa opportunità di crescita, o una condanna all’estinzione. Dalla fine del 2019 alla fine del 2023 l’Unione Europea è cresciuta del 3,9%, mentre gli Stati Uniti (SU) del 9,2%. Ovvero, più del doppio. Questo cosa ci insegna? Due sono le differenze cruciali: la crescita in Europa (0,6%) è dovuta all’aumento degli occupati e non alla produttività del lavoro, mentre nello stesso periodo in America è stata del 6%. In sintesi, noi stiamo creando posti di lavoro a bassa produttività. Se continuiamo di questo passo, vista la riduzione della popolazione in età lavorativa, potremo crescere solo con l’immigrazione. L’alternativa è quella di aumentare la produttività attraverso l’innovazione. Il digitale prima di tutto. La seconda differenza è che la ripresa nella UE è stata guidata dal manifatturiero, mentre negli Usa dai servizi informatici e dai servizi per le imprese grazie alle superstar della produttività. Le Big Tech dei servizi.
Lei lega l’innovazione alla formazione: è questo uno dei fattori sul quale fondare la crescita della produttività?
Questo è un punto fondamentale. Faccio un esempio: la Spagna. Dopo la crisi finanziaria del 2008, il Paese ha investito tantissimo in nuove tecnologie. Eppure, per i dieci anni seguenti la crescita della produttività di questo Paese è stata uguale a quella italiana. Che nell’innovazione, come detto, ha investito poco o nulla.
Come è possibile?
A fare la differenza è la formazione sia dei datori di lavoro che dei collaboratori. È semplice: se lei acquista un Pc, ma non ha nessun dipendente che lo sappia usare, la sua attività non potrà mai incidere sulla produttività totale dei fattori. La formazione dei diplomati o dei laureati, tecnici di hardware o software, è fondamentale. Le piccole e medie imprese sono state fondate da persone capaci che, come si dice, “si sono fatte da sole”. Però, a questi imprenditori mancano le competenze tecniche per crescere. Che si trovano, invece, in quei giovani capaci di gestire le nuove tecnologie. Poi c’è un altro punto…
Quale?
Non è vero che essere piccoli è bello: le Pmi devono diventare grandi. E per farlo devono puntare tanto sulla formazione quanto sulla digitalizzazione. Anche utilizzando, o creando, servizi alle imprese che sono – insieme ai servizi digitali – i settori che guidano la crescita degli Stati Uniti. Si tratta di consulenze sui progetti, financial budgeting, marketing, legali, sulla sicurezza e sul Welfare. Gli audits, i servizi assicurativi, di design. E’ anche vero che gli Usa hanno i grandi colossi della Big Tech (i cosiddetti Gafam: Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft), ma ora l’Unione Europea sta cambiando passo sulla concorrenza proprio per favorire le grandi imprese, in grado di competere ad armi pari con l’America e la Cina. Se noi vogliamo dare una svolta al nostro Paese dobbiamo parlare meno di business model e più di digitalizzazione. Che necessita di capitali, vero, ma oggi il Pnrr offre incentivi alle imprese per la digitalizzazione e per la formazione. La produttività, quindi, si lega anche alla possibilità delle imprese di fare ricorso alle risorse pubbliche. Che non devono essere sprecate: eliminare dal mercato le imprese “zombie” sarebbe un altro passo da compiere per poter sostenere quelle aziende che invece dimostrano di avere una visione del futuro.
Gli imprenditori hanno accusato i colpi della pandemia, del rincaro delle materie prime e di quelle energetiche, dell’aumento del costo del denaro, dell’inflazione. E ora le due guerre. Impossibile pensare ad un’Italia degli anni del dopoguerra?
E perché no? Ricordiamoci che dopo il secondo conflitto mondiale l’Italia cresceva a ritmi cinesi: nel 1961 siamo arrivati all’8%. Non c’è nulla di genetico nella stagnazione degli ultimi 30 anni. I nostri imprenditori sono diventati più stupidi di quelli svedesi o danesi? Non lo credo. Se rifiutassero il processo di sedazione indotto dagli incentivi perversi della politica e dall’inefficienza della pubblica amministrazione (che il Pnrr si propone di cambiare con la digitalizzazione), gli imprenditori italiani sarebbero capaci di individuare prodotti e servizi necessari per la transizione verde e digitale. E fare fronte alla drammatica riduzione della popolazione in età di lavoro. Però, in qualsiasi settore si voglia investire è indispensabile l’adozione della digitalizzazione. Mi piacerebbe che la Banca d’Italia facesse lo stesso esercizio che fece nel 2012 la Banca centrale inglese: capire quali sarebbero gli standard di vita del Paese senza l’apporto della Produttività totale dei fattori. Abbiamo già detto che gli inglesi si sarebbero fermati all’età vittoriana. E gli italiani ai tempi di Garibaldi, o ancora prima? Davide Ielmini