La governance e il credito? Se c’è l’una è meno difficile avere l’altro.
Le banche? Oggi valutano anche la rischiosità dell’impresa. Che dipende da una buona governance.
Le Pmi? Devono fare un salto culturale e gestire il proprio business in modo prospettico.
Di quanto la governance d’impresa influisca sul rapporto imprese-banche, e influisce più di quanto si possa pensare, parliamo con Guido Max Mantovani, docente di finanza aziendale all’Università Cà Foscari di Venezia e all’International University di Monaco.
Perché per le Pmi è importante concentrarsi sulla governance d’impresa?
Credo che il problema della governance sia importante per qualunque impresa, perché è il modo con cui l'azienda mette in relazione fra loro i diversi stakeholder grazie a contratti ben fatti e a relazioni quotidiane ben funzionanti. Con una buona governance l’impresa risulta più fluida, più sostenibile, più capace di competere e di coinvolgere chiunque possa contribuire, in qualche modo, al suo benessere. Con Giorgio Bertinetti, collega all’Università Cà Foscari, abbiamo pubblicato di recente uno studio sulle principali società quotate in Italia – sulle piccole e medie imprese non ci sono dati sufficienti – nel quale si nota quanto il buon funzionamento della governance incida sul costo del capitale riducendolo fino a 140-142 punti base. Si tratta di una riduzione del 14%: con i tassi attuali può essere un bel risparmio in termini di oneri finanziari e di aspettative da parte delle aziende. Ma il problema si pone anche sulle piccole imprese: una buona governance permette di ridurre il rischio nel funzionamento dell'impresa, e questo permette un accesso a una maggiore quantità di credito e, comunque, ad una quantità di credito ad un costo più basso. Ma c’è dell’altro.
Cosa?
Questo richiede una mentalità imprenditoriale diversa, perché se le banche non devono più e solo considerare i risultati economico-finanziari ma anche il rischio e la sostenibilità di lungo termine, anche l’imprenditore deve fare sua questa scelta. E aggiungere alle competenze straordinarie che si trovano nella sua azienda anche questa visione prospettica. In caso contrario, rischia di collassare.
Allora parliamo di banche: una buona governance può aiutare le imprese anche nel rapporto con gli istituti di credito?
Gli sforzi che sono stati fatti dal Comitato di Basilea, anche se non sempre ben riusciti, mirano ad associare all’analisi della sola redditività dell’impresa (la banca concede il credito perché i risultati di bilancio sono molto buoni) anche l’analisi di rischiosità: si concede credito perché l’azienda mostra risultati magari meno eclatanti rispetto ad altre, ma ha un livello di rischiosità decisamente più contenuto. Ecco, questo livello di rischiosità dipende sicuramente da una buona governance, perché se l'azienda non è guidata al meglio i suoi rischi aumentano e, quindi, la redditività potrebbe essere il frutto di un fuoco di paglia e non di una capacità imprenditoriale che rende l’azienda continuativamente redditizia nel tempo. È questo che dà stabilità, riduce il rischio e aumenta il merito di credito di un'impresa, anche di piccole e medie dimensioni.
Il rapporto tra governance d’impresa e risorse/finanziamenti: nell’ottenimento del credito, quanto incide una visione sostenibile per il futuro di un’impresa?
Non mi trovo perfettamente allineato al modo in cui oggi si parla di sostenibilità: purtroppo, mi sembra di capire che si tenda a dire che è sostenibile non ciò che lo è veramente, ma ciò che si vorrebbe che fosse. Culturalmente, questo è un passo indietro. La sostenibilità dovrebbe avere due caratteristiche: la prima deve permettere all’impresa di essere economica nel lungo termine, e non solo nel breve. Gino Zappa, padre dell’economia aziendale moderna, sosteneva questo concetto parlando di “economicità” già nella seconda metà degli anni Venti del Novecento. Ed è questa capacità di proiettarsi nel lungo periodo a caratterizzare molte imprese italiane, anche di piccole e medie dimensioni. La seconda componente, che elimina i pregiudizi, si basa sul fatto che un’impresa sostenibile non deve causare danni alla comunità. In molti casi, l’economicità di alcune imprese non regge sul lungo termine perché sfruttano semplicemente l’ambiente, o le filiere di approvvigionamento clienti-fornitori, solo per un proprio tornaconto: questo porta alla rottura del meccanismo. La governance è legata alla sostenibilità perché deve prevenire gli abusi.
Per le Pmi, quali possono essere le maggiori difficoltà nel definire una buona governance d’impresa?
Da anni, la mia visione tende ad essere sempre più condivisa anche su scala internazionale, dove le Pmi italiane sono sempre più un punto di riferimento, da imitare, al quale guardano molti studiosi. Negli anni Settanta e Ottanta pensavamo che il modello ideale di impresa fosse la grande corporation americana o, comunque, le grandi imprese con strutture organizzative articolate anche a livello geografico: sulla base di questo abbiamo definito standard e modelli di governance che sono stati recepiti anche nelle attuali normative europee. Ciò che oggi non riusciamo a considerare, adeguatamente, è che la piccola e media impresa, soprattutto quella italiana – la più innovativa, più performante e che restituisce i debiti bancari assunti per poter crescere - è un'impresa che fonda le proprie capacità sulle competenze. L’adozione di schemi di governance che si ispirano molto ai modelli anglosassoni – l’impresa molto strutturata - tende a mettere in secondo piano le competenze dell’imprenditore.
È possibile cambiare?
Le università da un lato, e il legislatore dall’altro, a livello nazionale e sovranazionale dovrebbero cominciare a capire che un conto è far funzionare macchinari e attrezzature con i collaboratori che lavorano nell’impresa; altro conto, invece, è avere una struttura organizzativa che, sia grande o sia piccola poco importa, ma soprattutto nella piccola, condivide conoscenza. E condividendo la conoscenza ha necessariamente bisogno di una governance diversa.
Un penny vale meno di un’idea?
Ripeto spesso quello che diceva John Maynard Keynes: se io ho un penny e tu hai un penny, e ce lo scambiamo, siamo ricchi come prima. Se io ho un'idea e tu hai un'idea, e ce le scambiamo, abbiamo raddoppiato il nostro patrimonio di idee. Noi abbiamo una governance, anche nell’attuale regolamentazione, che si occupa di studiare se c’è un’equità nello scambio dei penny e un po’ meno se ci sia equità nella condivisione e diffusione delle idee. Eppure, è quest’ultima ad aver reso grandi alcune imprese italiane.
Lo stesso vale per il sistema bancario: se questo non riuscirà a recepire nei suoi sistemi di calcolo del merito di credito la condivisione delle conoscenze, a cui la piccola e media impresa risulta essere più portata, rischia di applicare lo strumento sbagliato. Oggi ci sono imprese che sono sostenibili proprio grazie alla loro conoscenza. Allora, o gestiamo questa conoscenza anche quando si dà credito alle aziende, oppure prima o poi ci schiantiamo: c’è ancora molto da fare.
La conoscenza delle imprese non viene riconosciuta dagli istituti di credito?
Non da tutti. E se viene riconosciuta, è da quelle banche che a loro volta fanno della qualità e della conoscenza un cardine della loro competitività. Con la recente riforma del sistema del credito cooperativo, che ha portato alla creazione di Holding di riferimento, il sistema bancario ha portato al suo interno – seppur in linea generale – una governance che premia la conoscenza e la competenza del fattore umano. Quindi, il sistema si dimostra più sensibile nei confronti di quelle imprese che usano la stessa leva su scala internazionale.
Lei sta dicendo che conoscenze e competenze sono il punto d’appoggio della governance?
Assolutamente sì, perché se c’è un’idea la scambio con i miei collaboratori. Tutti nel tempo abbiamo due o più idee ed è questo che fa crescere le aziende. Anni fa ho contribuito ad uno studio del Teofilo Intato Institute presentato alla Financial Management Association, la più grande società scientifica al mondo in campo bancario e finanziario che conta circa 8mila associati. Quello studio, realizzato su circa tremila società (in larga parte piccole e medie imprese) della provincia di Treviso, ha dimostrato come, in realtà, un euro investito oggi sulle competenze umane si trasforma, in tredici anni e mezzo, in un valore di nove euro. Molte banche, però, sono costrette ad agire in un ambito regolamentare che tende ad applicare un modello che usa meno la conoscenza e più la produzione tradizionale. È su questo che bisogna intervenire. Davide Ielmini