Bastava andare in un qualsiasi bar quest’estate. Perché il bar rimane lo specchio dell’Italia che parla a ruota libera. E i discorsi, nei bar, erano sempre dello stesso tenore. «Se cerchi lavoro vai a fare il cameriere: ormai i locali assumono chiunque, perché cercano come dei pazzi». Senza consigliare il cameriere per forza (dipende dalle attitudini di ciascuno), questo è indicativo. Se è vero, statistiche alla mano, che nel 2022 l’occupazione è al massimo dagli anni Settanta, è anche vero che non c’è mai stata tanta mobilità come adesso. Le persone non si fanno problemi a licenziarsi se il mestiere non rispecchia più le loro aspettative: non solo il poco guadagno ma anche le condizioni d’impiego, gli orari, i turni, l’ambiente. Non conta più solo il denaro. La nuova generazione, che vive difficoltà inimmaginabili alle precedenti, ha capito che c’è di più.
Forse uno degli item più completi di sempre, targato Confartigianato Imprese e Territorio, è quello andato in onda giovedì scorso, intitolato “Stai cercando un buon lavoro e il dipendente giusto? I nostri consigli per riuscirci”. I suggerimenti, è ovvio, sono quelli per le imprese. Ecco la trama, come se fosse un film: il fenomeno della Great Resignation è ormai diffuso a livello globale: secondo il Work Trend Index di Microsoft del 2021 almeno il 40% della forza lavoro globale avrebbe pensato di lasciare il lavoro. Secondo un sondaggio di PricewaterhouseCoopers del 2021, il 65% dei dipendenti avrebbe dichiarato di essere alla ricerca di un nuovo lavoro. Come affrontare il fenomeno in azienda e arrestare il Big Quit? Se ne è parlato con Alessandro Rimassa, founder&Ceo di Radical Hr, Mariano Corso (docente di Leadership & Innovation del Polimi, Responsabile scientifico dell’Osservatorio HR e dell'Osservatorio Smart Working del Polimi, Responsabile Scientifico di P4I-Partners4Innovation) e Antonio Belloni, coordinatore del Centro Studi Imprese Territorio e saggista.
Iniziando dalla fine, c’è e ci sarà sempre di più per fortuna spazio per l’uomo o la donna intesi come esseri umani. Per la persona, per le sue inclinazioni, per il valore che può portare all’azienda. Non si tratta più del datore di lavoro come “benefattore”. Se il dipendente strategico, quello più bravo, va via, son guai per tutti. Rimassa lo chiarisce: «Per le imprese perdere un dipendente significa perdere un pezzo di storia dell'azienda. Ogni volta che entra un nuovo dipendente servono un po' di mesi per dargli le indicazioni, trasmettergli gli obiettivi e i valori. Pertanto concentriamoci sulle persone, sul valore che possiamo trasmettergli ma anche “estrarre” da loro. Sostituire una persona costa. Per questo serve che le aziende spingano gli elementi validi a restare». Gli fa eco Corso: «Se qualcuno si dimette, la cosa ha un costo. Ma il prezzo maggiore è vedere un dipendente in organico che si spegne, che perde identità ed energia. Se vuole andarsene ma resta, e si trova male, perde energia e crea un clima malevolo per tutti». Belloni mette il carico ed ormai è pura filosofia. «L’esempio perfetto è quello del sentimento provato nello scartare la lettera di divorzio quando arriva a casa. Acredine, ripicca, pancia, spirito di sfida, mai o quasi razionalità. Stiamo parlando di un evento che rimane un bisogno inespresso». Cioè, il volersi licenziare. O lo si evita, tramite un ambiente accomodante, o son solo guai.
Quindi: le grandi dimissioni, o “grandi scelte”, sono il segnale di una criticità più ampia, di malessere, all’interno di una azienda? Risponde Mariano Corso. «Gli imprenditori creano delle condizioni nell'azienda per cui le persone recitano, in qualche modo, ma il clima consente loro di esprimersi al meglio o al peggio, a seconda. Oltre l'80 per cento dei lavoratori soffrono di un malessere psicologico ma le imprese non lo sanno, anche perché nella cultura delle Pmi dire che non si sta bene è sconveniente. Quindi poi è ovvio che chi è a disagio, se ne va». Secondo Rimassa, «senza trasparenza e fiducia non è possibile. Chi sta meglio, fa il meglio per l’azienda. Ogni volta che perdiamo una persona, perdiamo opportunità di costruire business per l’impresa. Abbiamo sempre pensato che le persone siano dipendenti delle aziende, ma oggi le aziende sono dipendenti dalle persone. Un tempo erano due piani diversi, separatissimi. Ora è una relazione, si tratta di rapporti umani». Fortunatamente adesso non è più un “tengo famiglia”, devo lavorare per forza alle tue condizioni perché altrimenti a casa nessuno mangia. Adesso ognuno vuole il meglio per sé e spesso è gente che ha studiato, e di certo non viene a farsi sfruttare. Gli imprenditori che non lo capiscono dureranno ancora poco. Si potrebbe dire, per fortuna.
Antonio Belloni suggerisce addirittura che ogni dipendente sia un vero e proprio centro d’ascolto. «Rappresenta un capitale informativo da non disperdere. La relazione è a due livelli. Si deve ascoltare l'individuo con le sue energie pratiche, poi i desideri nascosti profondi». Conoscere i propri collaboratori è essenziale. Non sono persone senza volto, da catena di montaggio. Sono risorse vere e proprie, in tutto e per tutto. Anche perché la nuova generazione è differente. Non peggiore come si pensa: è il contrario. Ha studiato (le precedenti molto meno, e si vede), conosce il mondo grazie a internet, sa cosa vuole, sa che lavorare 40 ore per 800 euro non ha alcun senso almeno in Italia. E quindi non lo fa non per “pigrizia” ma per giusto orgoglio. «Lo smartworking – così Corso – è un esempio di come si può dare fiducia e un credito alle nuove generazioni. Ci sono molte modalità con cui un leader può motivare le persone. Se un capo ha cura di questi fondamentali trova molti modi di trasmettere il senso di ciò che chiede, motivando molto di più. Se le passioni individuali di ognuno venissero trasmesse in azienda, ne guadagnerebbero tutti. Stare in azienda non deve essere un male necessario, ma un modo di contribuire e autorealizzarsi, anche in un lavoro con dei vincoli».
Le aziende devono concentrarsi sulle persone. Bisogna immaginare un modo di lavoro differente, e fare lo sforzo adesso, tenendo conto che lo stipendio non è l’unico criterio. I dipendenti vanno “coltivati”: prima o poi il modello diventerà quello anglosassone: cerco di migliorare la mia posizione continuamente chiedendo aumenti, o spostamenti. In Italia la sedia è ancora comoda, ma per quanto? L’unico modo per trattenere i dipendenti validi è quello di dialogare e creare le condizioni per farli sentire parte del progetto. Altrimenti vanno via, vi tenete i più scarsi e chiudete bottega.