Il nuovo inizio del lavoro

Il nuovo inizio del lavoro

di Gianfranco Fabi

Quasi trent’anni fa, era il 1995, l’economista americano Jeremy Rifkin pubblicava un libro altrettanto profetico quanto provocatorio: “La fine del lavoro”. La tesi era molto semplice: la straordinaria crescita degli strumenti informatici avrebbe inevitabilmente causato una drastica e rapida riduzione dei posti di lavoro non solo nel settore dei servizi, ma anche nell’industria e nell’agricoltura con l’avvento delle gestioni automatizzate e dei robot. La realtà degli ultimi anni ha dimostrato che Rifkin aveva solo in piccola parte ragione: se è vero che l’informatizzazione ha fatto passi da gigante, con elementi che peraltro non erano stati previsti come la diffusione del telelavoro, è altrettanto vero che nel mondo del lavoro si è verificato quello che si potrebbe chiamare un “salto di paradigma” con la creazione non solo di nuove attività, ma anche con l’avvento di nuovi percorsi lavorativi che privilegiano la creatività, la responsabilità, la partecipazione.

La vecchia prospettiva del “mercato del lavoro” sembra sempre di più lasciare spazio ad una nuova fase sociale in cui siamo di fronte ad una frammentazione dei “lavori” soprattutto in una realtà come quella italiana costruita sulle piccole e medie imprese e in cui si intrecciano i fattori sociali con quelli demografici, le strutture formative con i vincoli burocratici e formali.

Sì perché l’Italia presenta più di una particolarità. Perché insieme alla transizione informatica, peraltro sempre più veloce grazie alla silenziosa avanzata dell’intelligenza artificiale, c’è un graduale spostamento verso l’alto dell’età degli occupati. Secondo la più recente indagine della Banca d’Italia rispetto a vent'anni fa oggi si contano cinque milioni di lavoratori (soprattutto lavoratrici) sopra i 50 anni in più e tre milioni sotto i 50 anni in meno. Dato che il numero complessivo degli occupati è attorno ai 23 milioni è del tutto evidente come in questo terzo millennio sia radicalmente cambiata la struttura del mondo del lavoro.

I meno giovani portano competenze, esperienze, capacità di adattamento, ma i più giovani, non a caso definiti “nativi digitali”, hanno dalla loro una significativa familiarità con l’innovazione. In teoria siamo di fronte a dimensioni che potremmo definire complementari. Solo in teoria però perché questi cambiamenti hanno di fatto portato a penalizzare la parte intermedia dell’occupazione, quella middle-class, che dovrebbe costituire non solo il perno della concordanza civile, ma anche la forza propulsiva di una dinamica di crescita.

Anche da questo nascono fenomeni come l’abbandono spontaneo del posto di lavoro (grandi dimissioni) o come il job hopping, la continua insoddisfazione del proprio posto con la ricerca di una nuova occupazione. Tanto che appartiene ormai al passato il valore della fedeltà, del rimanere a lungo nella stessa azienda con lenti e molto graduali avanzamenti di carriera.

Alle aziende spetta il difficile compito di trasformare questi problemi in opportunità. Per esempio, migliorando l’attrattività con migliori condizioni di lavoro, maggiori dotazioni tecnologiche, più ampie gratificazioni al di là del semplice elemento salariale. Scelte, peraltro, che aiutano anche a sviluppare la produttività e quindi a migliorare la reddittività aziendale.

Ma una responsabilità particolare spetta al sistema della formazione scolastica. I percorsi formativi si aggiornano infatti con estrema lentezza e con direzioni confuse. L’alternanza scuola-lavoro è affidata alla buona volontà dei dirigenti scolastici e degli imprenditori. Faticano a prendere sostanza i tirocini che dovrebbero rendere più facili gli inserimenti nelle aziende rispetto all’apprendistato. L’abbandono scolastico, attualmente al 12,7%, è ancora tra i più alti d’Europa mentre tra le politiche per favorire l’inclusione avanzano con difficoltà i “patti di rete” tra sistema educativo ed enti locali, patti che potrebbero essere finanziati almeno in parte dai fondi del Pnrr.

Per le piccole e medie imprese appare fondamentale un sistema educativo aperto in maniera costruttiva e dinamica al mondo del lavoro. E’ questa la strada prioritaria anche per affrontare il dramma dei giovani che non studiano né lavorano (i Neet, dall’acronimo inglese Not in employment, education or training): un fenomeno soprattutto italiano che coinvolge il 25% dei giovani tra i 15 e i 34 anni, un dato ben superiore alla media europea del 13% e che deriva in gran parte proprio dagli abbandoni scolastici e dalla mancanza di adeguati percorsi formativi.

Il risultato è quello di un sistema produttivo in cui non ci sono segni della “fine del lavoro”, preconizzata da Rifkin, ma continua ad esserci un’ampia e insoddisfatta richiesta di competenze tecniche unite a quelle “soft skill” (le attitudini ad affrontare i problemi con una visione aperta e positiva), che possono offrire la base per affrontare i grandi cambiamenti e per sfruttare le altrettanto grandi opportunità.