Hard e soft skills? Non solo: i giovani ci mettono “carattere" in azienda

Hard e soft skills? Non solo: i giovani ci mettono  “carattere" in azienda

di Sara Peggion

Non amano l'extra time. Fanno volentieri job hopping. Accettano impieghi solo se è previsto lo smartworking. Sembra un gioco di parole e inglesisimi, ma per capire il significato del lavoro per la generazione Z, ovvero i nati tra la metà degli anni '90 e il 2010, bisogna sintonizzarsi su questi nuovi parametri. E su aspettative professionali e personali molto diverse sia dai "fratelli maggiori" Millennials, sia dai veterani over 50 cresciuti con l'idea del posto fisso, delle scrivanie trasformate in depandance di casa, delle relazioni con colleghi e capiufficio che durano 20 o 30 anni fino al pensionamento.

Per chi assume le nuove leve tra i nativi digitali, soprattutto se i recruiter sono titolari di piccole e medie imprese che non hanno lunghi processi di selezione, la sfida è ribaltare il paradigma: non è l'azienda che sceglie, ma è il candidato o la candidata a valutare quanto è attraente la posizione offerta. E quanto quel tipo di lavoro sarà funzionale alla sua crescita, in sintonia con la sua personalità, in armonia con il suo stile di vita. Quanto guadagnerà, insomma, più sotto il profilo di benessere personale e caratteriale che in busta paga a fine mese. Come dire: ci eravamo appena abituati a puntare su hard e soft skills, che già sembrano competenze e parametri vecchi.

A tratteggiare lo stile dei circa 9 milioni di giovani italiani under 25/30 che si stanno affacciando e interfacciando con il mondo del lavoro sono due recenti report: una elaborazione pubblicata dal sito Zety.it e una indagine Adecco. In entrambi i casi, colpisce come «la tradizionale ricerca di impiego sia diventata una ricerca di significato per la generazione Z. Sempre più giovani concepiscono il lavoro come parte integrante del loro percorso di vita, andando oltre la mera prospettiva di guadagno» scrive l'autore del report di Zety Paolo Bordini. Addio quindi all’antico slogan “si vive per lavorare”: ora si lavora per vivere seguendo le proprie inclinazioni.

Tanti i dati interessanti da segnalare: il 97% degli intervistati sostiene di considerare il lavoro parte della propria identità, il 35% cerca nell’impiego uno sviluppo personale, e solo il 28% è mosso da ambizione. Il 60%, secondo Adecco, è pronto a preferire un salario più basso in cambio di un ruolo gratificante e in linea con la sua formazione. Il 74%, secondo Zety, valuterebbe di diventare libero professionista se non trovasse un lavoro adeguato alle sue aspettative. Forse anche perché la presenza dei genitori garantisce un adeguato supporto economico: 7 under 35 su 10 vivono ancora in casa, la media europea è del 50,6%. Comunque, alta.

Come fare, dunque, non solo a trattenere i nuovi talenti ma ad incentivare la loro crescita umana e caratteriale all’interno di una impresa, che si tratti di una start up, di una ditta artigiana o di una azienda manifatturiera più strutturata? La strada potrebbe essere implementare una nuova cultura del lavoro che rispecchi meglio i valori in cui credono i nativi digitali: dalla sostenibilità alle politiche di inclusione, dalla responsabilità sociale alla possibilità di esprimere le proprie idee e sentirsi valorizzati come individui.

I Gen Z hanno investito molto sul loro capitale educativo (sono la generazione con il grado di istruzione più alto) e “bramano” per mettersi alla prova: sono figli della tecnologia, dei social, dei viaggi low cost e della velocità, e dai dati dei report sembrano poco sintonizzati su politiche di gestione del talento tradizionali e lente. Così come potrebbero rispondere in modo tiepido ai classici programmi di formazione e aggiornamento, al reverse mentoring, alla collaborazione top-down con le generazioni più mature all’interno dello stesso gruppo di lavoro.

Meno fedeli alle culture aziendali classiche, considerano importanti per la loro crescita umana e professionale i programmi di welfare più smart e flessibili, dal volontariato ai benefit per il benessere mentale fino al gaming, oltre a essere molto attenti al tema dell’innovazione. E, non ultimo, amano essere ispirati: desiderano manager e leader che siano autentici, aperti al dialogo e pronti a condividere le proprie sfide personali.

Anche se rimanere a lungo nello stesso luogo di lavoro non è nei loro orizzonti, come accaduto ai loro genitori, amano prendere il meglio dalle esperienze che fanno. Servirà più ad allungare i loro curriculum che a lasciare un segno nel posto che occupano? Chissà, è ancora presto per dirlo. Ma la motivazione c’è: l85% del campione di giovani intervistato da Zety pensa già di avere un impatto positivo che sarà in grado di trasformare il mercato del lavoro in meglio.