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Strategie per affrontare l’inverno demografico

Strategie per affrontare l’inverno demografico
Inverno demografico

Perché dobbiamo preoccuparci della crisi demografica? E perché il declino demografico è un problema per il lavoro? Le dinamiche demografiche non riguardano dati puramente matematici ma sollevano un problema strutturale del Paese, una questione “umana” che mostra con chiarezza in qual misura dietro a un calo di nascite e a una popolazione che invecchia esistano implicazioni economiche e sociali. Il rischio è che questi squilibri demografici vadano a compromettere i percorsi di sviluppo nei prossimi decenni.

«La struttura demografica ha oggi una base sempre più stretta. L’Italia sta attraversando una situazione ben nota di una popolazione che invecchia: sia dall'alto, ovvero aumentano le persone con età avanzata, sia dal basso, diminuisce il numero delle persone giovani. Negli ultimi 10 anni abbiamo perso oltre un milione di giovani da 0 a 14 anni, una riduzione che può solo aumentare per il fatto che si fanno sempre meno figli. L'equilibrio con la mortalità sarebbe possibile con 2,1 figli per coppia, l’Italia si attesta su una media di 1,25, un gap importante che porta alla progressiva riduzione della popolazione – spiega Impicciatore – C'è quindi una progressiva decrescita della popolazione giovanile che però non è accompagnata da una reale consapevolezza di ciò che significhi questa scarsità.

Traslando un concetto dell’economia in termini sociali, i giovani in quanto scarsi dovrebbero essere valorizzati, invece sta accadendo l'esatto contrario: stipendi in ingresso tra i più bassi che altrove, carriera e ruoli di responsabilità che vengono raggiunti più lentamente. Un ingresso nel mondo del lavoro che avviene anagraficamente più tardi rispetto ad altri paesi, con posizioni meno prestigiose. Si tratta di un pregiudizio culturale (particolarmente diffuso in Italia), basato sull’idea che un ventenne o trentenne non possa assumersi responsabilità all'interno di una impresa».

DEMOGRAFIA E CRESCITA ECONOMICA

Inverno demografico

Una deresponsabilizzazione dei giovani che trova responsabilità educative a partire dalle famiglie e che si traduce in una uscita tardiva dalla casa genitoriale, con un conseguente rinvio di responsabilità e di cambio dei ruoli: da assistito e curato a chi si prende cura. «Questo distacco procrastinato dalla casa genitoriale si configura come un aspetto fortemente negativo perché ritarda l'autonomia dei giovani anche nel mercato del lavoro. Inoltre, una permanenza a oltranza a casa dei genitori perpetua quelle che sono le condizioni sociali, economiche, di istruzione della famiglia di origine: la società diventa meno omogenea e più stratificata, con un aumento significativo delle disuguaglianze il destino dei figli è segnato da quello della famiglia di origine. Non esiste più una condizione di livellamento incoraggiata da altri organismi come la scuola, come in passato, perché è la famiglia a incidere in maniera più forte e determinante –  puntualizza Impicciatore –  Anche qui si tratta di un aspetto culturale legato a una impostazione familista del welfare e della gestione della cosa pubblica che non eroga in maniera diretta le risorse economiche ai giovani, come accade per esempio in nord Europa, ma indirettamente attraverso la famiglia, esasperando ancora una volta l’aspetto legato alla famiglia».

Una visione familista, con un welfare poco dedicato ai giovani, va a rafforzare (invece di scardinare) il vortice che sta trascinando verso il basso le nuove generazioni. «Risorse dedicate alle nuove generazioni permetterebbero sia un sano livellamento sociale sia una acquisizione più rapida di autonomia e responsabilità. Ciò potrebbe incentivare (non necessariamente) una maggiore natalità e bilanciare in parte l’attuale disequilibrio demografico. È questa la scommessa dei prossimi 20-30 anni, una scommessa che si continua a sottostimare. Riorganizzare la nostra società non significa solamente “pensioni e sanità” (due fattori ovviamente stressati da un invecchiamento precoce della popolazione), vuol dire riorganizzare anche il sistema produttivo e i modelli di consumo. Esistono azienda sensibili a queste tematiche, che però devono essere poi affrontate e gestite a livello politico. La politica dovrebbe farsi orientare dagli studi demografici, muovendosi anche nella direzione di guardare positivamente all’immigrazione di lavoratori stranieri».

“FUGA DEI CERVELLI” IN ITALIA: TRA RETORICA E REALTÀ

Inverno demografico

Se è vero che esiste una quota crescente di giovani italiani che scelgono di spostarsi all’estero per una esperienza lavorativa (e ciò ha un peso per quanto detto prima), è altresì vero che il saldo demografico negativo è in parte compensato dai processi migratori. Prosegue Impicciatore: «Il sistema delle Pmi italiane ha favorito la disseminazione dei migranti sul territorio perché, a differenza di altri paesi occidentali, la nostra imprenditoria ha una diffusione più capillare. Una caratteristica a mio parere positiva che può favorire i processi di integrazione, anche alla luce di una popolazione immigrata giovane, motivata e più “mobile”, quindi propensa a spostarsi facilmente verso le varie regione».

La retorica della “fuga dei cervelli” e di frenare l’esodo dei giovani italiani ricorre abbastanza frequentemente sulle pagine dei giornali italiani con toni spesso sensazionalistici. Tuttavia, le conoscenze sul fenomeno parlano di tassi sovrapponibili ad altri paesi europei, se non inferiori: il problema italiano non riguarda tanto il brain drain ma le scarse capacità attrattive del nostro Paese e i bassi livelli di qualificazione degli immigrati in ingresso. «L’idea di andare all’estero per una esperienza lavorativa è qualcosa di fortemente condiviso a livello dell’Unione europea; è giusto che ci sia una mobilità, l’integrazione europea va in questo senso, a partire da programmi come l’Erasmus. Preoccupa invece che, a differenza di altri paesi, in Italia il saldo resta negativo, cioè non c’è il corrispettivo in ingresso di giovani qualificati dal resto dell’Europa avendo una scarsa attrattività di persone skilled, a livello di istruzione e lavorativa – conclude – Le politiche devono lavorare sul fronte dell’attrattività, a partire dallo stesso sistema delle imprese. L’immigrazione extra Ue può facilitare il riequilibrio dei mercati del lavoro locali, soprattutto in una realtà produttiva come l’italiana. Si tratta di risorse demografiche importanti con un grande potenziale. L’immigrazione è un fattore rilevante per rispondere agli squilibri demografici e rafforzare le capacità di sviluppo di un territorio». Paola Mattavelli