Questo approfondimento ci porta a esplorare un argomento di rilevanza cruciale nel panorama aziendale: la great resignation e le sfide affrontate dalle Pmi nel contesto di un mercato del lavoro in continua e rapidissima evoluzione. La great resignation è un fenomeno che in qualche modo ha rivoluzionato il modo in cui i lavoratori considerano le opportunità di carriera e ha posto nuove sfide per le aziende che cercano di attirare e trattenere talenti.
Per approfondire questa tematica e capire come, nonostante le loro dimensioni limitate, le Pmi possano costruire efficacemente una campagna di employer branding, al fine di diventare attrattive per le figure professionali altamente richieste sul mercato, abbiamo intervistato Alessandra Mazzei, professoressa associata all'Università Iulm dove è coordinatrice della laurea in Comunicazione d'impresa e Rpe, direttrice del centro di ricerca di Ateneo Cerc, Centre for Employee Relations and Communication.
Professoressa Mazzei, La great resignation è un fenomeno globale che ha reso difficile per molte aziende trovare giovani talenti da assumere. Che cos’è e da dove nasce la Great Resignation?
Il fenomeno delle great resignation, che tradotto in italiano è grandi dimissioni, è emerso a seguito della pandemia Covid. Consiste nel fatto di dare le dimissioni dal proprio lavoro, anche senza avere già una alternativa. Si tratta di un atto di presa di posizione, di autonomia e di rivendicazione dei propri diritti.
In particolare, del diritto a una qualità della vita che comprenda ambiti ben più ampi oltre a quello del lavoro. E un po’ quella che negli Stati Uniti è stata definita la filosofia YOLO: you only lives one, che è il nostro si vive una volta sola.
Ciò che sorprende è la forza e determinazione con cui si è portati ad abbandonare il lavoro anche quando non si ha già un'alternativa: è sufficiente avere anche solo l'idea e la prospettiva di poter costruire questa alternativa.
C'è quindi un lavoratore, una lavoratrice più consapevole delle proprie priorità, delle proprie capacità e anche di quelle che possono essere le nuove opportunità al di fuori dell'azienda dove sta lavorando in quel momento. Quale può essere, quindi, una strategia efficace per la Pmi per trattenere il proprio talento?
In questo momento storico, le persone non solo sentono il diritto al lavoro ma rivendicano anche il diritto ad avere un buon lavoro, un lavoro che non sia totalizzante.
Che cosa possono fare le Pmi per migliorare la condizioni dei propri lavoratori? Dalle ricerche del Center for Employee Relations abbiamo individuato tre leve che possono essere un suggerimento e un'ispirazione per le aziende:
Partiamo dalla prima. Per valorizzare le risorse umane intendiamo l’implementazione delle politiche di gestione delle risorse umane: spesso le piccole e medie imprese non hanno una gestione strutturale dell’HR e coordinano le persone sulla base del buon senso e della pratica consolidata; invece, io credo che sia bene strutturare le politiche di gestione delle risorse umane: bisognerebbe - per esempio - prevedere percorsi di carriera, percorsi di selezione chiari e trasparenti e, non meno importante, anche percorsi di valutazione delle performance e del potenziale dei propri collaboratori.
Riguardo la seconda leva, ovvero avere un approccio relazionale inclusivo, credo che sia agevole nelle Pmi, perché le relazioni sono più facili da coltivare rispetto a una grande azienda e perché è più probabile che ci si conosca quasi tutti personalmente. Un approccio relazionale inclusivo non è altro che un approccio basato, per esempio, su una comunicazione ampia e trasparente. Questo è molto difficile per gli imprenditori e per i top manager, perché di solito sono travolti dall'operatività quotidiana mentre sarebbe molto importante trovare il tempo per farlo.
La terza leva – importantissima! - che noi abbiamo individuato è quella della giustizia organizzativa, una sorta di garanzia di equità. Spesso le aziende, in totale buona fede, credono di comportarsi in maniera equa ma la questione è se questa equità viene percepita dai lavoratori. Si pone quindi la missione di far percepire questa equità; è importante chiarire e dichiarare in maniera trasparente quali sono i criteri per la carriera, i criteri per lo spostamento delle persone e, ove mai dovesse essere necessario, anche i criteri per la riduzione del personale.
Quindi, ribadisco l’importanza di queste tre leve: valorizzare le persone, avere un approccio inclusivo, far sentire tutti a casa e la giustizia organizzativa.
Credo sia il caso di introdurre il tema delle employer branding: spesso le Pmi non hanno risorse significative da investire in campagne di reclutamento eccessivamente elaborate. A tal proposito, potrebbe condividere suggerimenti o anche strategie specifiche che le imprese possono adottare per distinguersi e diventare, dunque, più attrattive per le giovani figure professionali?
Il primo suggerimento per tutti i piccoli imprenditori è quello di non sottovalutare l’importanza delle l'università: è importantissimo far conoscere la propria azienda presso i giovani laureandi. Oltretutto è un consiglio a costo zero perché le università, per definizione, sono aperte ad attivare relazioni con le imprese; quindi, in base alle varie discipline, suggerisco alle piccole e medie imprese di mettersi in contatto con le università del territorio e della regione per partecipare alle iniziative che le università organizzano per offrire tirocini.
Certamente un employer branding richiede degli investimenti e Lei mi sta facendo notare che, tipicamente, le medie imprese non hanno grandi risorse; tuttavia, parliamo un attimo di questi investimenti che, potenzialmente, si potrebbero fare per garantire ai propri dipendenti un equilibrio soddisfacente tra vita e lavoro. A tal proposito, la gestione degli impiegati non può più essere centrata sulla presenza in ufficio oltre le ore previste dal contratto: questo, che per noi era considerato normale, non è più accettato. Da questo punto di vista, per fortuna, ci siamo allineati a quei Paesi, come Svezia o Germania, che abbiamo sempre visto come esempi di produttività del lavoro. Le eccezioni, naturalmente, ci sono sempre ma il concetto fondamentale è che la disponibilità dei lavoratori non deve essere un principio organizzativo.
Un'altra delle richieste che vengono espresse dai lavoratori è la flessibilità: cosa intendiamo con flessibilità? Ci sono due richieste tipiche: la prima è una flessibilità dell'orario di lavoro che permetta ai lavoratori di gestirsi autonomamente il monte ore, senza avere un orario fisso di inizio e fine lavoro; l'altra è la flessibilità relativa alla sede di lavoro: le persone chiedono di poter lavorare quando serve nella sede del datore di lavoro ma anche la possibilità di poter lavorare da casa propria o da altri luoghi. La chiamiamo a volte smart working ma io preferisco chiamarlo lavoro da remoto; in questo modo si configura un lavoro ibrido che in parte è in presenza e in parte è da remoto.
Ecco, su questo le piccole e medie imprese si devono attrezzare quanto più possibile perché per giovani queste due richieste sono un motivo per scartare le offerte di lavoro.
Capisco che per molte aziende la gestione del lavoro da remoto sia una cosa molto difficile; in particolare, il lavoro da remoto non deve essere confuso con il lavoro flessibile. Lavoro da casa, ma non è che lavoro quando voglio. Questo è uno degli equivoci più gravi che mina l'applicabilità del lavoro da remoto perché il direttore Risorse Umane teme di non poter contare sulle persone nel momento del bisogno. Il lavoro da remoto non va confuso con il lavoro flessibile e la flessibilità va negoziata, anche se noi lavoriamo da remoto. Queste due possibilità vanno gestite con sagacia.
Concludiamo questa intervista con una provocazione: la great resignation nasce come un problema per le Pmi che, però, cercando una soluzione a questo problema, stanno migliorando in termini di struttura e condizioni di lavoro o, quanto meno, ci stanno provando; si sta dunque creando e prospettando un futuro migliore tanto per l'impresa quanto per le lavoratrici e i lavoratori. È d'accordo?
Si, concordo. È una bellissima provocazione. I momenti di crisi di mutamento sono anche quelli nei quali cadono una serie di barriere verso il cambiamento. Quindi sì, è una bellissima suggestione, questa che Lei lancia, che io condivido. Affrontare il problema delle grandi dimissioni costituisce uno stimolo per tutte le aziende, sia grandi che piccole e medie, a migliorare il proprio contesto di lavoro. Giuliano Terenzi