Calano le ore lavorate, diminuiscono le imprese e il loro “tasso di natalità“. Sono le tante facce della crisi del manifatturiero, settore produttivo che sta segnando il passo a causa dei grandi cambiamenti attraversati dall’economia mondiale, e legati principalmente alle fluttuazioni delle materie prime, e all’aumento dei prezzi dell’energia. Il risultato è un dualismo diabolico: da un lato, il calo delle imprese, un fenomeno che riguarda l’intero Paese con una preponderanza nelle aree del Nord-Ovest; dall’altro, una «de-natalità» imprenditoriale, che richiama la ben nota crisi demografica italiana.
Il manifatturiero segna una forte contrazione: secondo Unioncamere, l’anagrafe delle imprese italiane, sono quasi 59.000 le aziende perse in cinque anni, dal 2019 al 2024. Al 31 dicembre 2024 si contano 497.423 imprese contro le 556.188 dello stesso periodo nel 2019. I settori più colpiti sono la moda e la metallurgia, con una perdita di ben novemila imprese, fatta eccezione per la produzione di macchinari.
Sempre dalle Camere di Commercio arriva un altro dato preoccupante: l’inverno demografico delle imprese colpisce duramente i comuni italiani. In sei comuni su cento non è stata registrata alcuna nuova attività nel 2024. In Piemonte, 126 comuni non hanno visto la nascita di nuove imprese, pari al 10,6% dei comuni della regione, un record negativo. Anche la Lombardia registra numeri allarmanti: 103 comuni a zero nuove imprese, pari al 6,3% del totale regionale. Una situazione paradossale per due delle principali locomotive dell’economia italiana.
L’altra faccia della crisi è rappresentata dall’aumento delle ore di cassa integrazione, salite del 30% nel 2024. Secondo i dati Inps, il monte ore di cassa integrazione ha raggiunto i 426,5 milioni, un terzo in più rispetto al 2023 e quasi il doppio rispetto ai livelli pre-Covid, che si attestavano a 201,9 milioni di ore. I comparti più colpiti sono l’automotive, dove molte imprese sono passate al contratto di solidarietà, e il tessile, con un forte aumento della cassa ordinaria e straordinaria. Anche le domande di Naspi (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego) sono cresciute dell’1% rispetto allo stesso periodo del 2023, raggiungendo 1.182.527 beneficiari.
La produzione manifatturiera italiana è particolarmente vulnerabile ai rischi legati alle fluttuazioni delle materie prime, spesso influenzate dalle instabilità geopolitiche. Un esempio emblematico è stato l’aumento del costo dell’energia dovuto al conflitto in Ucraina, che ha messo in ginocchio interi settori già provati da anni di pandemia. All’orizzonte si profilano ulteriori turbolenze legate all’introduzione di dazi da parte degli Stati Uniti, che potrebbero penalizzare le esportazioni italiane, in particolare quelle rivolte al mercato americano, nel quadro di politiche protezionistiche e di rilancio dell’economia interna.
- Crisi del settore manifatturiero: calo delle ore lavorate e diminuzione delle imprese
- Riduzione delle imprese: dal 2019 al 2024 si sono perse quasi 59 mila imprese manifatturiere
- Mancata nascita di nuove attività specialmente nel Nord Ovest del Paese
- Crescita della cassa integrazione: nel 2024 il monte ore di cassa integrazione è aumentato del 30% rispetto al 2023
- Rischi futuri: la produzione manifatturiera italiana resta vulnerabile a conflitti e dazi internazionali
Per salvare il settore manifatturiero dalla crisi nera che sta attraversando bisogna stare ben lontani dai «giochi di prestigio» e guardare al tema coi piedi per terra. Il professor Luciano Pero, docente presso la School of Management del Politecnico di Milano, propone invece quel che potrebbe sintetizzarsi come un «gioco di leve»: e per farlo, per analizzare la crisi del settore manifatturiero italiano, propone un quadro complesso ma articolato di possibili rimedi. «Non esiste una soluzione unica, un passe-partout — spiega —, ma diverse leve, sia esterne che interne all’impresa, possono contribuire a ridare slancio al settore e attrattività agli investimenti».
Tra i principali ostacoli, il professor Pero sottolinea il costo dell’energia e la burocrazia, che spesso frenano lo sviluppo di nuove iniziative imprenditoriali. «Le associazioni datoriali ne parlano quotidianamente: ci sono difficoltà nello sviluppare progetti a livello statale e territoriale, con differenze marcate tra i vari settori». Un altro nodo cruciale riguarda l’integrazione europea. «In alcuni casi l’Europa ha favorito la competitività internazionale. Vedi il caso di Airbus, capace di rivaleggiare con Boeing. In altri contesti, invece, la frammentazione ha ostacolato fusioni strategiche, soprattutto nel settore ferroviario, dove le gelosie nazionali hanno limitato la crescita di grandi gruppi». Come esempio positivo, Pero cita la fusione tra Essilor e Luxottica, che ha favorito sviluppo e innovazione, a differenza di altre operazioni percepite con maggiore diffidenza.
Tra le leve interne alle aziende, il professore del Politecnico individua la necessità di riattivare il capitale fermo nelle banche, che potrebbe essere investito per sostenere la crescita delle imprese italiane. «Perché vendere aziende di elettrodomestici ai turchi invece di rafforzarle e mantenerle in Italia? Se le banche investissero in capitale di rischio, potrebbero favorire l’innovazione di prodotto, soprattutto nei settori della moda, del tessile e della meccanica».
Un’altra soluzione importante è favorire le aggregazioni tra aziende familiari, molte delle quali si trovano ad affrontare il passaggio generazionale. «Le famiglie imprenditoriali spesso non hanno il coraggio di managerializzare le loro imprese, pur avendo a disposizione risorse e tecnici qualificati, che invece, ahinoi, scelgono di lavorare all’estero».
L’innovazione rimane centrale per la ripresa del manifatturiero, ma deve andare oltre l’acquisto di nuove tecnologie, coinvolgendo direttamente i lavoratori. «In Germania, come in Italia, ma anche negli Usa, ci sono molte imprese familiari, ma da noi le aziende sono più piccole e meno propense a utilizzare strumenti manageriali. È fondamentale che i lavoratori partecipino attivamente ai progetti di innovazione, soprattutto nei settori tecnico e produttivo. Esperienze come quelle di Rold ed Electrolux dimostrano che il coinvolgimento dei dipendenti può essere decisivo per implementare nuove tecnologie».
«L’ideale sarebbe che Trump ci ripensasse, ma non sarà così. E comunque stiamo parlando di una scelta di sistema, che non possiamo influenzare». A tal proposito il professor Pero evidenzia la necessità di esplorare nuovi mercati e di puntare sulla fascia alta del Made in Italy. «Ma attenzione: non basta fare oggetti belli: devono essere utili e competitivi. Favorire l’innovazione aiuta ad abbassare i costi, ma anche a trovare nuove opportunità di espansione internazionale».
In conclusione, il rilancio del settore manifatturiero richiede una strategia integrata e coraggiosa, capace di combinare innovazione, investimenti e una maggiore apertura al cambiamento.
- Leve esterne: Il rilancio del manifatturiero dipende dalla riduzione del costo dell’energia e da politiche europee che favoriscano la crescita delle imprese, evitando frammentazioni e gelosie nazionali.
- Investimenti interni: Riattivare il capitale fermo nelle banche è essenziale per sostenere le imprese italiane, soprattutto nei settori della moda, del tessile e della meccanica, evitando la svendita a competitor esteri.
- Aggregazioni aziendali: Favorire le aggregazioni tra imprese familiari e incentivare la managerializzazione è cruciale per superare le difficoltà legate ai passaggi generazionali e trattenere i talenti in Italia.
- Innovazione e lavoratori: L’innovazione deve coinvolgere attivamente i lavoratori, promuovendo progetti aziendali che li rendano protagonisti del cambiamento tecnologico.
- Espansione internazionale: Puntare sulla fascia alta del Made in Italy e cercare nuovi mercati è fondamentale per restare competitivi, riducendo i costi e offrendo prodotti non solo belli, ma anche utili. Andrea Camurani