Impresa e territorio: perché la filiera integrata è la chiave della competitività
Dalla delocalizzazione al ritorno della prossimità: le imprese riscoprono il territorio come leva di innovazione, resilienza e valore. Il pensiero di Tonino Pencarelli (Università di Urbino)

Il territorio non è uno sfondo. È un sistema di relazioni, competenze e valori che può dare forza all’impresa oppure svuotarla di significato.
Tutto è cominciato con una domanda posta da Mauro Colombo, direttore generale di Confartigianato Imprese Varese: "Che cosa rende davvero attrattivo un territorio per le imprese?".
Da questa riflessione è nata l'inchiesta "Impresa e Territorio", che ha esplorato, attraverso quattro puntate, le dinamiche tra imprese e territori in un'economia sempre più globalizzata e, paradossalmente, sempre più attenta alle specificità locali.
Nel quinto approfondimento della nostra Annarita Cacciamani, il professor Tonino Pencarelli dell'Università di Urbino ci guida a riscoprire il valore del radicamento locale, delle filiere corte e della prossimità produttiva. Una visione che mette al centro una nuova idea di imprenditorialità: umanistica, responsabile e capace di tenere insieme impresa, territorio e capitale umano.

Delocalizzare, poi ripensare. Esternalizzare, poi ricucire. Il cerchio della globalizzazione inizia a chiudersi e le imprese italiane – soprattutto le Pmi – riscoprono il valore del radicamento locale. È questa, in sintesi, la lettura che il professor Tonino Pencarelli, docente di Economia e Gestione delle Imprese all’Università di Urbino, dà rapporto tra imprese e territorio. Un rapporto oggi più che mai strategico, alla luce delle crisi geopolitiche, del caro-trasporti e della transizione verde.
«Il territorio non è un semplice contenitore geografico. È un ecosistema produttivo, un laboratorio di innovazione, una comunità di saperi. Senza questo, l’impresa perde competitività e senso» sottolinea il docente.
Dal mito dell’outsourcing al ritorno della prossimità
Negli anni della globalizzazione spinta, molte aziende italiane hanno smembrato la filiera per concentrarsi su design, marketing e distribuzione. Tutto il resto – produzione, logistica, assistenza – è stato affidato a partner esterni, spesso stranieri.
«È stato un processo globale, non solo italiano. L’outsourcing era conveniente: meno costi, meno vincoli. Ma il Covid ha mostrato il rovescio della medaglia: forniture lente, scarsa qualità, mancanza di controllo» spiega il professore.
Oggi il pendolo torna indietro: si parla di reshoring, near-shoring, friend-shoring. In alcuni casi addirittura di reinternalizzazione produttiva, resa possibile anche dalle tecnologie dell’industria 4.0, che riducono la necessità di manodopera intensiva.
Il valore delle reti corte: casi dal territorio

L’economia delle “reti corte” è una delle chiavi del pensiero di Pencarelli. Non è solo una questione logistica, ma un modello di collaborazione territoriale fondato sulla fiducia, sulla specializzazione artigianale e sulla prossimità relazionale.
«Ci sono imprese del mobile che chiedono al fornitore di dedicare un intero stabilimento alla produzione e all’immagazzinamento della componentistica. È un rapporto strettissimo, business-to-business, possibile solo in filiere locali» esemplifica il docente.
Tra i casi citati:
- Benelli Armi (gruppo Beretta), azienda di meccanica di precisione, che coordina una rete di fornitori entro un raggio di 50-100 chilometri.
- Aziende del contract di lusso, che grazie a artigiani locali altamente specializzati riescono a produrre elementi su misura con decorazioni in oro e argento, per ville e hotel di prestigio.
- Il distretto del mobile e della meccanica nelle Marche, dove la contaminazione settoriale ha generato nuove eccellenze e specializzazioni.
Dove c’è un campione, c’è filiera
In presenza di un’impresa leader (un “campione locale”), la filiera si organizza con efficienza e innovazione: «Queste imprese sono motori di ecosistemi. Se invece mancano, le Pmi devono unirsi, creare hub produttivi e tecnologici, coinvolgere scuole, università, istituzioni. Non possono farcela da sole».
Il nodo del capitale umano: «Adottate un laureato»

Una filiera forte non può esistere senza persone competenti. Ma servono nuove forme di collaborazione tra imprese e sistema educativo: «Ogni impresa dovrebbe adottare un laureato. Fargli fare esperienza, riconoscergli un compenso minimo, evitare stage gratuiti che umiliano i giovani. Serve rispetto e visione».
Non solo tecnici: anche i laureati in discipline umanistiche sono importanti per:
- storytelling aziendale,
- gestione di contenuti e canali digitali,
- relazioni con mercati esteri.
Formazione tecnica: il nodo irrisolto
Un’altra grande leva strategica, spesso sottovalutata, è la formazione professionale e tecnica. Il professor Pencarelli avanza una critica al modello scolastico italiano, troppo sbilanciato sulla teoria e poco connesso al mondo reale.
«Abbiamo scuole aperte solo la mattina, ma potremmo usare il pomeriggio per laboratori artigianali veri. Così si recupera un sapere che rischia di sparire».
In particolare, gli ITS (Istituti Tecnici Superiori) rappresentano, secondo il professore, una risposta concreta alle esigenze delle imprese, soprattutto nel manifatturiero.
- Facilitano il ricambio generazionale nelle filiere artigiane;
- Offrono percorsi formativi brevi e mirati;
- Consentono una connessione diretta tra scuola e fabbrica.
«Non basta celebrare il Made in Italy una volta l’anno. Bisogna investire nella formazione quotidiana dei giovani, dentro e fuori le scuole. Altrimenti il Made in Italy resta uno slogan» evidenzia.
Le leve pubbliche per il ritorno della produzione
Pencarelli richiama anche l’importanza delle politiche pubbliche per favorire il reshoring e la coesione produttiva:
- Bandi regionali con contributi fino a 50.000 euro per imprese artigiane che riattivano siti produttivi dismessi.
- Credito d’imposta nazionale per il rientro in Italia di fasi produttive localizzate fuori Ue.
- Contratti di rete tra Pmi, spesso incentivati anche a livello fiscale.
«La piccola e media impresa è il cuore del nostro tessuto produttivo. Ma senza supporto finanziario e istituzionale, rischia di non reggere la sfida della transizione»” afferma il professor Pencarelli.
Il nodo del credito: il capitale non resta più sul territorio
Altro tema: il declino delle banche locali.
«Molte banche raccolgono denaro nel territorio, ma poi lo investono altrove o in attività finanziarie. Servono nuovi strumenti: credito cooperativo, venture capital pubblico, finanza paziente» sottilinea il docente.
Una nuova imprenditorialità: “umanistica”
La visione del professor Pencarelli si chiude con un richiamo forte alla dimensione etica e culturale dell’impresa.
«Ci servono imprenditori umanistici, che considerino il territorio un valore non negoziabile. Se invece le imprese finiscono nelle mani di fondi speculativi, che cercano solo dividendi, il territorio diventa invisibile. Un imprenditore vero prima di licenziare 200 persone ci pensa. Un fondo, no. Dobbiamo difendere l’impresa in carne e ossa” conclude il docente (5. continua) Annarita Cacciamani
Tonino Pencarelli è autore del volume “La gestione strategica nel capitalismo degli stakeholder” (Franco Angeli).