
L'alleanza tra imprese familiari e manager professionisti sta diventando meno rara, eppure l'Italia continua a essere il fanalino di coda europeo su questo fronte. La diretta Item d'Impresa del 4 dicembre ha messo attorno a un tavolo virtuale tre voci diverse ma convergenti: Antonio Belloni, responsabile del Centro Studi Imprese Territorio, Massimo Fiaschi segretario generale di ManagerItalia e Luca Viviani, direttore generale della Tessitura Attilio Imperiali. Il risultato è un quadro lucido e scomodo della realtà italiana.
Quando si parla di managerializzazione delle imprese, l'Italia mostra un ritardo strutturale che non riguarda tanto le grandi aziende quanto il cuore produttivo del paese: quelle piccole e medie imprese da 20, 50, 100 dipendenti che costituiscono il 99,4% del tessuto imprenditoriale. Qui la struttura resta piramidale e familiare: il fondatore, i fratelli, i parenti, e sotto la forza lavoro senza responsabilità equiparabili a quelle dei titolari.
Il dato che Massimo Fiaschi ha messo sul tavolo senza giri di parole fotografa un'anomalia tutta italiana: all'estero il 70% delle imprese familiari hanno manager esterni, in Italia solo il 28%. Non si tratta di una differenza marginale, ma di una scelta – o meglio, di una non-scelta – che costa in termini di competitività, produttività, capacità di crescita dimensionale.
Il paradosso storico è stridente. Quarant'anni fa i manager delle Pmi erano proprio quegli ex dirigenti usciti dalle grandi aziende fordiste – la Dalmine, la Lucchini, la Fiat – che si erano creati la loro piccola impresa di fornitura. Erano manager diventati imprenditori. Oggi quegli stessi imprenditori, o i loro eredi, faticano a far entrare nelle loro aziende quella figura manageriale che loro stessi incarnavano.
La verità scomoda è che il manager entra quando non se ne può fare a meno. Antonio Belloni lo ha spiegato con un esempio concreto che vale più di mille teorie: sta monitorando da mesi un'azienda svizzera nel settore chimico, perfetta per un intervento manageriale. Ha preparato un report di venti pagine, ha studiato il settore, il posizionamento, i margini. Eppure è arrivato a una conclusione amara: non riuscirà mai a convincerli. Il motivo? La famiglia ha accumulato 300 milioni di euro negli ultimi trent'anni. Non c'è urgenza economica, finanziaria, patrimoniale. L'azienda ha dimezzato il fatturato in tre anni, ma il patrimonio protegge dalla percezione della crisi. E la parola chiave è "crisi".
Luca Viviani ha vissuto l'opposto di questa situazione. Dieci anni fa è entrato nella Tessitura Attilio Imperiali come consulente. L'azienda era in crisi vera. La discrepanza tra il prestigio del marchio – un'identità fortissima nel settore del lusso – e i risultati disastrosi era evidente. Ma proprio quello stato di necessità ha aperto le porte: delega forte, subito, e margine di manovra reale. In pochi mesi l'azienda è tornata redditiva, tanto da diventare "campione della crescita" su Il Sole 24 Ore per un paio d'anni consecutivi.
L'esempio di Sergio Marchionne in Fiat resta il paradigma: quando è entrato, la Fiat stava per cadere. Gli hanno detto solo due no – non uscire dall'automotive, non vendere Ferrari – e per il resto carta bianca. Il resto è storia nota. Ma il punto non è celebrare Marchionne, è capire che senza lo stato di necessità quella delega non sarebbe mai arrivata.
Far entrare un manager non basta. Belloni ha incontrato decine di aziende che hanno provato la strada manageriale senza successo: hanno assunto, hanno pagato, ma hanno continuato a comandare le stesse persone che avevano portato l'azienda in quella situazione. Il manager diventa un'aggiunta cosmetica, non un agente di cambiamento.
Massimo Fiaschi ha identificato la parola chiave: fiducia. Senza fiducia non c'è delega reale, e senza delega il manager non può incidere. Non ha la bacchetta magica, ha bisogno di tempo, di informazioni, di poter prendere decisioni che vengano rispettate. L'ambiguità dei ruoli è il killer silenzioso di queste alleanze. E c'è una frase che nessun dirigente vorrebbe mai sentire in un'azienda: "Si è sempre fatto così".
Luca Viviani ha raccontato un episodio che illumina questo passaggio delicato. Uno dei suoi primi interventi è stato mettere in discussione l'intero pool di fornitori di seta, che rappresentava metà del costo di produzione. La proprietà ha resistito: cambiare fornitori significava rischiare sulla qualità, sull'identità stessa dell'azienda nel mercato del lusso. Viviani non ha forzato, ha accompagnato: capitolato tecnico, misurazione oggettiva della qualità, piano di controllo. Metodo, non imposizione. Il risultato è stato uno dei cambiamenti di maggior impatto sulla redditività.
Oggi, dopo dieci anni, Viviani è direttore generale e il rapporto con la famiglia Imperiali si è trasformato in una partnership basata su valori comuni. Le sorelle Imperiali non si sentono minacciate, Viviani non si sente sotto scacco. È un equilibrio raro, costruito giorno dopo giorno.
Una delle resistenze più diffuse delle Pmi riguarda i costi. Il manager costa troppo, non ce lo possiamo permettere. Massimo Fiaschi ha demolito questo mito con i numeri del contratto collettivo appena firmato il 5 novembre da ManagerItalia. Esiste una formula di ingresso agevolata che equipara il costo di un dirigente a quello di un quadro: per un netto mensile di 3.000 euro, il costo totale per l'azienda è di 93.574 euro per il dirigente contro 96.762 per il quadro.
Si tratta di un dirigente a tutti gli effetti, con agevolazioni contributive per due anni ma con piena assistenza sanitaria e formazione. Un modo per permettere alle piccole imprese di provare, di testare l'alleanza senza impegni insostenibili.
Antonio Belloni ha proposto una soluzione ancora più radicale per affrontare il tema della continuità generazionale: includere nel salario del manager la possibilità di acquisire quote dell'azienda. Non un managing buy out aggressivo, ma un percorso pianificato. In Italia ci sono centinaia di aziende senza eredi, dove i figli non vogliono o non possono subentrare. Dare al manager il 5% iniziale, con la prospettiva di aumentare la partecipazione in base ai risultati, potrebbe trasformare il problema della successione in un'opportunità di continuità e crescita.
D'altronde, è sempre stato così: i primi imprenditori delle Pmi erano manager usciti dalle grandi aziende fordiste. Il ciclo si ripete, ma va pianificato.
Il manager che entra in una Pmi non può essere lo stesso che entra in una multinazionale. Le hard skills sono simili – competenze tecniche, capacità di gestione, visione strategica – ma le soft skills cambiano radicalmente. Massimo Fiaschi lo ha sintetizzato così: serve flessibilità, empatia, soprattutto ascolto. Il manager deve capire immediatamente in che ambiente si trova, quale cultura aziendale lo circonda, dove può incidere davvero.
La trasversalità è fondamentale: il direttore generale di una Pmi guarda contemporaneamente il bilancio, il personale e il mercato. Sono tre funzioni che in una grande azienda corrispondono a tre dirigenti diversi. Serve una visione complessiva e la capacità di intervenire rapidamente, senza la burocrazia che rallenta le grandi organizzazioni.
Viviani, con il suo dottorato in scienza dei materiali e un passato da ingegnere nucleare, ha portato in un'azienda tessile familiare un metodo rigoroso fatto di dati, misurazioni, processi. Ma ha anche imparato ad ascoltare l'identità profonda di quell'azienda, a non toccare ciò che costituiva il suo valore distintivo.
Antonio Belloni ha riferito un dato emerso in un recente incontro alla Banca d'Italia che suona come un campanello d'allarme: le aziende che non vanno bene non galleggiano più, chiudono. Il periodo dei sostegni straordinari, delle moratorie, dei crediti garantiti è finito. Il mercato sta facendo selezione naturale, e lo sta facendo velocemente.
Massimo Fiaschi ha aggiunto una prospettiva demografica inquietante: quando si fanno rilevazioni sulle figure professionali del futuro, i dirigenti sono sempre in crescita nella domanda. Siamo in pieno inverno demografico, i giovani saranno sempre meno, e le competenze manageriali saranno sempre più rare e preziose. Le Pmi che oggi non costruiscono ponti con il mondo dei manager rischiano di trovarsi domani senza alternative.
L'alternativa all'ingresso di competenze manageriali è la perdita secca di capitale produttivo: aziende che chiudono portandosi dietro know-how, storia, relazioni con i clienti, capacità produttive. Il costo per i territori e per il sistema economico è enorme, molto più alto del costo di un manager.
Il tema non è più se le piccole e medie imprese debbano aprirsi ai manager esterni. Il tema è quando farlo: prima che diventi indispensabile per evitare il fallimento, o dopo, quando è troppo tardi. La differenza tra questi due momenti è la differenza tra crescita e sopravvivenza.