Employee retention. Letteralmente, mantenimento dei dipendenti. Inteso come la capacità di trattenerli e fidelizzarli: è questa, oggi, una delle mission più importanti per le aziende. Grandi, medie e piccole. Questa l’auspicata e più produttiva risposta al fenomeno del job hopping, sempre più diffuso anche in Italia, soprattutto in riferimento ai Millennials e alla Gen Z.
Le motivazioni che portano a cambiare spesso lavoro sono diverse: la ricerca di una maggiore sicurezza e soddisfazione economica, ma anche di un posto/ruolo che sia più gratificante sotto altri punti di vista. I giovani, ormai, attribuiscono estrema importanza al sentire. Vogliono sentirsi valorizzati, apprezzati, riconosciuti. Vogliono avere la possibilità di dedicarsi anche alla propria vita privata. Vogliono crescere.
Ed è fondamentale, oggi, che le aziende prendano atto di tutto questo. Riguardo in particolare alla Gen Z e alle Pmi, dunque, quali sono i primi step per passare dalla teoria alla pratica? Fabrizio Montanari, docente di Organizzazione aziendale all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, ne ha definiti tre.
«In generale – dice Montanari – oggi il tema delle risorse umane dovrebbe sempre essere legato all’adozione di pratiche che rendano i lavoratori soddisfatti. Che generino piacevolezza in riferimento al posto di lavoro». La conseguenza è chiara nonché ampiamente dimostrata: i lavoratori soddisfatti, che stanno bene, rendono di più. E diventa quindi molto meno probabile che se ne vadano.
Per quanto concerne i giovani della Gen Z, fondamentale è capire che hanno bisogni differenti – per molti versi – rispetto alle generazioni precedenti. «Questa generazione – continua Montanari – non è interessata tanto al “premio” economico, quanto ad altri aspetti». Per scansare equivoci, però, chiariamo bene questo concetto: «La sicurezza economica resta un fattore di estrema importanza. Tuttavia, rappresenta soltanto l’entry level; è la condizione necessaria ma non sufficiente».
Oltre alla sicurezza economica, dunque, quali sono gli elementi che definiscono l’employee retention e spingano i lavoratori a restare? Come far sì che sentano l’azienda anche come propria e siano animati dalla voglia di dare il massimo? Come dicevamo, il professor Montanari ne ha individuati tre.
Il primo coincide con la crescita personale: «I giovani – spiega – vogliono lavorare in un contesto che permetta loro di imparare cose nuove, diversificare la propria attività, svolgere compiti diversi. Evolversi». Per la loro stessa strutture e le loro dimensioni, raramente le Pmi permettono di fare carriera nel senso tradizionale del termine, ovvero salire di livello gerarchico. In compenso, la carriera orizzontale è sempre possibile. I datori di lavoro, dunque, dovrebbero favorire lo sviluppo di competenze e il maggior numero di esperienze possibili. Le nuove sfide diventano una linfa vitale.
Ma una valida employee retention passa anche dalla flessibilità, e ciò è diventato evidente soprattutto dopo la pandemia di Covid-19. «Le persone – sottolinea Fabrizio Montanari – hanno voglia di flessibilità in riferimento sia ai tempi che ai luoghi. Aspirano a lavorare liberamente da casa o in altri posti, sottraendosi al rigido orario 9-18 e al continuo controllo da parte del capo».
Questo è un cambiamento di mentalità ormai irreversibile, che non solo riguarda il mondo del lavoro ma è anche l’evoluzione della società odierna. Il problema è che la maggior parte degli imprenditori ha come minimo 50 anni; quindi, fatica ad adattarsi e nel peggiore dei casi assume una posizione di rifiuto. Invece no: «Il cambiamento culturale deve riguardare anche la classe dirigente». Il modo di lavorare è in trasformazione e bisogna prenderne atto. Per il bene delle aziende. Quelle, perlomeno, non produttive, dove il discorso è nettamente diverso.
Il terzo step è strettamente legato al purpose. Ai motivi per cui l’azienda esiste, allo scopo ultimo. Ecco, i giovani ambiscono a lavorare per realtà che abbiamo un obiettivo ampio, che definiscano dei valori e li rispettino. Che inseguano «obiettivi non solo di tipo economico ma anche sociale» e coinvolgano attivamente i lavoratori.
L’esempio più innovativo e concreto va ricercato nelle società benefit, che coniugano le finalità di lucro e il beneficio sociale. «Sempre per fare un esempio – conclude Montanari – penso a un’azienda in cui parte dell’orario è destinato allo svolgimento di lavori socialmente utili in collaborazione con associazioni del territorio». Facendo cose del genere, i giovani si sentono bene. E no, non pensano di abbandonare l’azienda. Nadine Solano