News

Design thinking, il fenomeno Usa che fa bene all’innovazione

Design thinking, il fenomeno Usa che fa bene all’innovazione
Design thinking

Il Design thinking è un approccio sempre più diffuso negli Stati Uniti, che anche in Italia sta trovando popolarità nel corso degli ultimi vent’anni anni, coinvolgendo anche le Piccole e medie imprese. Inoltre, se qualche anno fa era orientato principalmente alla creazione di nuovi prodotti, la sua evoluzione lo ha trasformato anche in uno strumento per l’innovazione a un livello più alto, organizzativo e manageriale.

In poche parole, secondo la definizione di Cabirio Cautela, direttore dell'Osservatorio Design thinking for Business del Politecnico di Milano, «si tratta di un processo di routinizzazione dell’innovazione che, quindi, non resta più soltanto un fatto estemporaneo, d’istinto e legato alla capacità dei singoli, ma diventa un’attività aziendale strutturata, come avviene per altri comparti come la logistica o la contabilità». Il Design thinking è quindi un approccio alternativo all’innovazione tecnologica, che integra capacità analitiche con attitudini creative.

PMI AVVANTAGGIATE

Design thinking

Inoltre, si tratta di una realtà che sta vivendo un vero e proprio boom nei settori più investiti dalla trasformazione digitale e trova applicazione nella risoluzione di problemi complessi, nella fase di realizzazione e verifica rapida di prodotti e servizi, nelle attività pensate per coinvolgere più profondamente i dipendenti nei processi creativi e nella ridefinizione della visione strategica aziendale. E per le Pmi può essere utile? «Dipende chiaramente da caso a caso – spiega il professor Cautela – ma, in una Pmi, il vantaggio potrebbe essere quello di porre al centro l’utente finale, legando l’innovazione alle nuove grandi sfide che coinvolgono tutti, e quindi anche le imprese, come il riscaldamento globale, l’inclusione sociale, la circolarità dell’economia. Inoltre, non essendo fortemente strutturata, una Pmi è avvantaggiata in questo approccio, perché può muoversi rapidamente e generare prototipi in maniera agile e senza vincoli».

Ma, al contempo, «il rischio è di avere tante idee, ma di dar vita anche a dei semafori rossi che possono bloccarle. Inoltre, non è semplice che una Pmi si possa aprire a nuove professionalità aliene come antropologi, sociologici, designer, col rischio di creare delle turbolenze culturali rispetto a quando ci si affida a esperti su materie più tipiche, come un marketing manager o un uomo di finanza». Insomma, prima di avventurarsi su un terreno inesplorato, è sempre meglio coltivare una forma mentis aziendale che possa digerire anche queste novità. «Paradossalmente – aggiunge l’esperto – le imprese che sono totalmente aliene sul fronte del design, accolgono questo metodo meglio di chi, invece, ha già una cultura interna di design, come possono essere le aziende di moda o di arredamento».

IL MODELLO TOP DI INNOVAZIONE

D’altro canto, però, anche i dati di un recente studio dell’osservatorio Design thinking for business della School of management del Politecnico di Milano, confermano come il Design thinking sia attualmente il modello d’innovazione più in voga, utilizzato da quasi un terzo del campione (31,2%). I settori che hanno investito maggiormente in progetti basati sul Dt sono quelli dell’energia (13% della spesa), della manifattura (12,3%) e della finanza e assicurazioni (11,8%). Ma è forte anche l’interesse dei comparti retail (10,5%), food & beverage (7,9%), healthcare (6,4%), automotive (4,1%), pubblica amministrazione (2,9%) logistica e trasporti (2,5%) e It (2,4%).