In gergo lo chiamano “retention”, cioè “mantenimento”: la capacità dell’azienda di conservare i propri dipendenti. Giulio Xhaet, partner & head of Communication di Newton Group, voce molto ascoltata su LinkedIn, analizza una situazione che vede ancora troppe Pmi impreparate sul tema.
«Per evitare che i giovani talenti scappino altrove, un imprenditore – esordisce Xhaet, anche docente per la 24Ore Business School – non deve immaginare che le esigenze delle nuove generazioni, in fondo siano simili, se non identiche, alle sue o a i suoi primi riporti e i suoi collaboratori storici "quand'erano giovani". Ricerche ed evidenze in ogni nazione e in ogni industria riporta come la generazione Z e i più giovani tra i Millennial (i primi veri nativi digitali che abbiano mai colonizzato il mercato lavorativo) dimostrino una concezione inedita rispetto alle priorità di un "buon impiego".
«La promessa di una carriera, di più soldi, legata al prestigio di un'azienda, per molte ragazze e molti ragazzi non basta più a giustificare un mancato equilibrio tra la vita personale e la quotidianità lavorativa. La GenZ soprattutto è più ansiosa e fragile, e allo stesso tempo più ambiziosa: ha più timore di "sbagliare il lavoro" e "perdere il treno", e per questo è sensibile alle occasioni che possono palesarsi attorno a lui ogni giorno, si mantiene in contatto con coetanei che tentano strade diverse, sfruttando social e canali online, e cercano il più possibile di mantenersi alternative e porte aperte nel prossimo futuro, nella convinzione che se non si trovano bene, trovare un lavoro migliore sia non facile, ma comunque fattibile».
Quindi è doveroso pensare a una riorganizzazione aziendale alla luce dell'ingresso dei nuovi talenti? «Più che doveroso, ma allo stesso tempo una riorganizzazione aziendale permanente è quasi sempre sintomo di qualcosa che non va: promesse non mantenute, mismatch tra competenze richieste e profili inseriti, disallineamento rispetto a quanto accade nella contemporaneità del mondo reale». Xhaet lo chiarisce: alcune grandi corporation mi dicono «abbiamo un turnover molto alto e anche in crescita, è vero, ma nel nostro settore è sempre stato così».
Vero solo in parte, e in parte può essere una scusa per sfilarsi dalla complessità di una situazione critica. Visto che non basta inserire nuovi tool di management e qualche attività di welfare (per carità, utili e spesso necessari), serve lavorare a qualcosa di più difficile: la cultura aziendale, ossia l'insieme di comportamenti e abitudini che a volte non cambiano per decenni, in quanto «ai grandi capi va bene così».
«Poi – aggiunge – devo dire che sta anche ai talenti di nuova generazione adattarsi a contesti di massimo impegno e a volte sì, sacrificio: se desideri una carriera rapida, un ottimo stipendio, sviluppare nuove competenze, e avere ottimi rapporti con i capi, devi anche dare qualcosa in più della media, non puoi solo pretendere».
L’esperto si rivolge direttamente alle ragazze e ai ragazzi, con cui si confronta spessissimo: «Non potete pretendere un cambio di ruolo più volte l'anno come fosse la norma: e non è così importante fare mille cose diverse in un anno, perché altrimenti le competenze (e anche il network) acquisiti non possono attecchire dentro e attorno a voi. Il mondo relazionale-fisico non va alla velocità di un'app nello switchare situazioni. E aggiungo: quasi sempre, per fortuna. Imparate ad adattare il vostro tempo con il tempo realistico per il cambiamento. Ve lo dice un multipotenziale amante del cambiamento che ne ha fatto una bandiera (non è un caso se i miei ultimi libri pubblicati si chiamano “#Contaminati”, e “Da grande - Non è mai troppo tardi per capire chi potresti diventare”)».
E poi c’è la formazione continua che un imprenditore deve sviluppare. «Fino al Covid – conclude Giulio Xhaet – la reputavo molto importante. Negli ultimi anni la reputo un'urgenza clamorosa: non solo per le necessità generazionali descritte poco fa. Ma anche perché c'è un elemento nell'equazione del lavoro che sta per sparigliare le carte in tavola: è l'elefante nell'ufficio, l'intelligenza artificiale generativa. L'intelligenza artificiale la studio da 15 anni, da quando si diceva nei primi anni 2000 che avrebbe rubato la metà dei lavori esistenti: così non è stato, perché non era una tecnologia così potente come promettevano i tecnoevangelisti. Ma avendo l'opportunità di usare le AI in modo spesso avanzato in diversi campi, con clienti e colleghi proprio lato formazione e sviluppo, mi sto convincendo che questa generazione di IA non è come le altre, quindi è urgente preparare piani di development per le risorse con competenze che sappiano muoversi in parallelo all'IA, rispetto a ciò che serve e servirà davvero da qui ai prossimi 2-5-10”. In bocca al lupo a tutte e tutti noi quindi: il futuro del lavoro è oggi più che mai da vivere e intraprendere con enorme curiosità, enorme preoccupazione ed enorme entusiasmo. Davide Maniaci