Ormai da qualche anno, l’Unione Europea si sta adoperando affinché le aziende assumano concretamente – e in misura sempre più ampia – le proprie responsabilità circa il rispetto dell’ambiente e dei diritti umani. Un ruolo di primo piano, lungo questo tracciato, spetta alla direttiva Corporate Sustainability Due Diligence (CS3D). Lo scorso 14 dicembre è stato sancito un accordo provvisorio tra il Consiglio e il Parlamento; l’approvazione definitiva sembrava ormai imminente, ma dobbiamo usare il passato perché la Germania – che ha adottato una disciplina similare nel 2021 – sta facendo resistenze.
Il traguardo, dunque, per il momento sembra essersi allontanato. Ma in cosa consiste, precisamente, questa direttiva? Riguarda soltanto le grandi aziende o coinvolge anche le Pmi? E quali sono le riserve di cui la Germania si sta facendo portavoce? Abbiamo cercato di fare chiarezza con l’aiuto di Andrea Perrone, ordinario di Diritto commerciale all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Sono emersi anche parecchi spunti di riflessione, da cogliere tempestivamente.
«La direttiva Corporate Sustainability Due Diligence – spiega il professor Perrone – mira a rafforzare la considerazione dei diritti umani e dell’ambiente nell’intera supply chain. Impone alle aziende precisi obblighi di due diligence, quindi di verifica relativa all’aspetto umano e alla sostenibilità».
Secondo quanto stabilito finora, si applicherà alle imprese Ue con oltre 500 dipendenti e un fatturato superiore ai 150 milioni di euro; alle imprese con più di 250 dipendenti e un fatturato che superi i 40 milioni di euro, di cui almeno la metà totalizzati in settori “sensibili”; alle imprese di altri Paesi che generino nell’Ue un fatturato delle stesse dimensioni. I settori “sensibili”, utile ricordarlo, sono quelli che più facilmente si prestano a un potenziale sfruttamento sia dell’ambiente che delle persone. Un esempio su tutti, il tessile.
Considerato il target immediato della CS3D, quindi le imprese più o meno grandi, si potrebbe pensare che la direttiva in questione non riguardi né tocchi quelle medie e piccole. Non è affatto così, proprio perché entra in ballo la supply chain. Quindi l’intera catena produttiva e i partner commerciali che la compongono: «Anche le piccole imprese, per esempio, sono implicate».
Ed è proprio questo il punto che vogliamo capire bene. «Sui grandi – spiega Andrea Perrone – vigilerà un soggetto pubblico che ogni Stato provvederà a definire; in Italia potrebbe essere l’Autorità Garante della Concorrenza. Per rispettare le regole contenute nella direttiva, proprio i grandi dovranno a loro volta monitorare l’operato dei subfornitori, qualunque sia la loro dimensioni. E assicurarsi che siano allineati». In caso contrario, c’è la facoltà di sanzionare o chiudere del tutto il rapporto professionale.
Per dirla in parole ancora più semplici, «la logica dell’UE è la seguente: prendiamo come “bersaglio” le grandi imprese; saranno loro a dover garantire per tutti, con una serie di misure, che la catena del valore rispetti sia i diritti umani che l’ambiente».
«Ci sono diverse strade. La grande impresa può inserire nel contratto di fornitura un codice di condotta, che per esempio vieti di far lavorare un minore o utilizzare sostanze inquinanti nei processi di produzione. Il fornitore, così, deve assumere precisi impegni». Una soluzione più interessante può essere quella che offre anche un supporto alle Pmi con cui si stabiliscono rapporti di business, affinché le Pmi stesse non vengano messe a rischio.
Appare comunque chiaro come la disciplina, in riferimento ai diritti umani, riguardi principalmente i Paesi in via di sviluppo; in Italia e nel resto degli Occidente il focus diventano quasi esclusivamente le dinamiche ambientali.
«Correttezza, ragionevolezza e proporzionalità – riflette Perrone – sono alla base di questa direttiva. Il buon senso». Ma c’è un problema: «Le previsioni hanno carattere molto generale, bisogna vedere come saranno recepite dai singoli Stati. Il diavolo sta nei dettagli, come si suol dire. Il timore è che l’applicazione rigorosa delle norme possa imporre costi insostenibili per le imprese». Basti solo pensare all’onere di una costante rendicontazione.
Proprio per questo, c’è anche il rischio che la Corporate Sustainability Due Diligence possa essere bypassata, ovvero applicata solo formalmente. In sostanza, le obiezioni della Germania sono proprio queste. Avendo già sperimentato tale modus operandi, riferisce che si è rivelato causa di pesi economici eccessivi, nonché fonte di adempimenti burocratici e formalità inutili. Carte da far firmare per scansare eventuali critiche da parte dell’UE. Nulla di più.
Nel settembre 2023, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha chiesto una riduzione del 25 per cento degli obblighi di rendicontazione delle Pmi. Poco dopo la Germania ha proposto di ridurre i requisiti per le stesse Pmi, innalzando la soglia per la segnalazione da 250 a 500 dipendenti.
Alla fine del 2023 l’Ue ha incaricato l’Efrag di ritardare i lavori sugli standard specifici del settore e sugli standard per le imprese extra-UE. Lo scorso 24 gennaio, la Commissione Affari Legali del Parlamento Europeo ha adottato una proposta che ritarderà l’attuazione degli standard settoriali e dei requisiti di rendicontazione delle imprese extra-UE previsti dalla Csrd - Corporate sustainability reporting directive - fino al 2026.
Però Andrea Perrone non ha dubbi: «Questa direttiva è una rivoluzione copernicana. Complessivamente, io sono a favore. Alcune grandi multinazionali hanno un volume d’affari superiore al Pil di tanti Stati. È ragionevole, quindi, che il dovere di assicurare la tutela dell’ambiente e delle persone sia fatto gravare anche su di loro. Ma la ricaduta sui piccoli, in effetti, è un tema molto delicato».
Perché i piccoli, questo vogliamo ribadirlo, potrebbero ritrovarsi non solo alle prese con una sfilza di adempimenti burocratici e costi elevati, ma anche vittime di drammatici tagli.
«La norma affronta un problema reale e urgente. Tuttavia, lo strumento è destinato a funzionare soltanto se applicato con ragionevolezza, intelligenza ed equilibrio. Se gli standard sono troppo costosi, bisogna prevedere adeguati sussidi». Interessante, a questo punto, è sapere che esiste la possibilità di «creare con le associazioni di categoria dei protocolli di compliance rispetto ai fornitori». Che farebbero diminuire i rischi.
Non è una questione facile da risolvere, ma rappresenta lo specchio di necessità concrete e non più procrastinabili. Una cosa è già chiarissima: la Corporate Sustainability Due Diligence chiama in causa anche i parametri ESG. Che, sempre di più, rappresentano una fattore altamente competitivo. La strada appare meno in salita per le Pmi che si stanno già adeguando. Nadine Solano