Le filiere corte vincono quando la globalizzazione fallisce

Le filiere corte vincono quando la globalizzazione fallisce

Le filiere corte rappresentano un modello di sviluppo economico che sta dimostrando una straordinaria capacità di resistenza e adattamento di fronte alle crisi globali. Il paper "Le filiere corte come modello di resilienza territoriale" - della collana Quadrante del Centro Studi Imprese Territorio - propone una teoria integrata che interpreta questi sistemi produttivi come ecosistemi complessi, dove la prossimità geografica genera vantaggi competitivi decisivi attraverso relazioni dense, fiducia reciproca e circolazione rapida di conoscenze tacite.

Il paradosso della globalizzazione emerge con chiarezza: mentre le tecnologie digitali promettevano l'irrilevanza del territorio, le recenti crisi hanno dimostrato che la vicinanza fisica rimane fondamentale. Durante la pandemia, quando le catene globali collassavano, le filiere corte hanno mostrato una resilienza superiore grazie alla capacità di riconfigurarsi rapidamente: imprese tessili convertite a dispositivi di protezione, aziende meccaniche orientate verso componenti medicali, tutto coordinato spontaneamente dalla densità delle relazioni locali.

Le caratteristiche distintive delle filiere corte includono la prossimità multidimensionale (non solo geografica ma anche cognitiva, sociale e istituzionale), la densità relazionale che genera reti sovrapposte di conoscenza, l'identità territoriale costruita su competenze specialistiche accumulate nel tempo, la flessibilità strutturale basata su piccole imprese interconnesse e la ridondanza funzionale che garantisce alternative per ogni fase produttiva critica.

La ricerca del Centro Studi evidenzia però che la resilienza non deriva da pianificazione centralizzata ma da processi di auto-organizzazione distribuita: piccoli attori che trovano progressivamente forme di coordinamento vantaggiose, apprendimento collettivo che circola attraverso mobilità dei lavoratori e relazioni informali, innovazione incrementale radicata nelle competenze esistenti. Tuttavia, questo sistema mostra limiti strutturali: difficoltà ad affrontare innovazioni radicali, rischi di lock-in cognitivi, fragilità nel ricambio generazionale quando maestri artigiani depositari di saperi taciti escono dal mercato senza adeguata trasmissione.

Le condizioni abilitanti identificate richiedono un nuovo paradigma istituzionale: non costruire filiere dall'alto ma facilitare la loro emersione spontanea attraverso infrastrutture immateriali, formazione specialistica radicata nel territorio (ITS, co-progettazione con imprese), semplificazione normativa reale, sostegni mirati alla cooperazione piuttosto che alle singole imprese, investimenti in beni condivisi. La digitalizzazione, lungi dal minacciare le filiere corte, può amplificarne i vantaggi: mantenere relazioni, accedere a mercati globali, preservare competenze attraverso realtà aumentata e sensori intelligenti.

Il paper propone infine una governance evoluta che superi logiche emergenziali verso prevenzione continua, partnership pubblico-private con competenze multidisciplinari, coordinamento multilivello tra Stato, Regioni, Comuni e organizzazioni intermedie. Le filiere corte non sono nostalgia del passato ma laboratori avanzati per ripensare lo sviluppo: modelli che combinano efficienza e resilienza, competizione e collaborazione, tradizione e innovazione, radicamento territoriale e apertura globale.

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Filiere corte: perché funzionano (e dove si fermano)

Filiere corte: perché funzionano (e dove si fermano)

Aggiornato a novembre 2025

Le filiere corte rappresentano oggi uno dei pochi modelli capaci di unire competitività e radicamento territoriale. Non si oppongono alla globalizzazione: ne correggono gli eccessi, valorizzando ciò che i grandi sistemi non riescono a replicare. Prossimità, relazioni dense, conoscenza tacita, specializzazioni mature. È in questo equilibrio tra saper fare, fiducia e cooperazione informale che molti territori – Varese in primis – hanno trovato la forza per assorbire choc, riconfigurare produzioni, innovare senza perdere identità.

La ricerca mostra che la resilienza osservata non dipende da pianificazioni centralizzate, ma da dinamiche spontanee di auto-organizzazione: reti che apprendono, imprese che si riconfigurano, competenze che circolano. Un sistema vivo, capace di adattarsi rapidamente perché fondato su relazioni e cognizioni condivise.

Accanto ai punti di forza emergono però limiti strutturali: carenza di competenze, pressione burocratica, difficoltà nell’affrontare innovazioni radicali, rischi di lock-in culturali. Perché le filiere corte restino un asset strategico occorrono condizioni abilitanti: infrastrutture adeguate, formazione orientata alla pratica, semplificazione reale, investimenti pazienti e politiche che accompagnino il sistema, non che lo sostituiscano.

Le filiere corte non sono un modello nostalgico. Sono un laboratorio avanzato per ripensare lo sviluppo, a partire dal territorio e dalla sua capacità di generare valore condiviso.